Gianluigi Toccafondo, 33 anni, è disegnatore specializzato in animazione. Dopo aver studiato alla scuola d’arte di Urbino, si è trasferito a Milano dove attualmente vive e lavora. Con i suoi cortometraggi di animazione ha vinto diversi premi internazionali e nazionali, fra cui, nel ’91, quello istituito da Linea d’ombra per i giovani autori. Tra i suoi spot, quello della Sambuca Molinari; tra i video, l’ultimo del gruppo di Elio e le storie tese; tra le sigle televisive, quella di Tunnel nel ’94.

Il tuo lavoro di animazione ha un aspetto di manualità artigianale?
L’aspetto artigianale in verità è molto presente nel mio lavoro. Forse perché mio padre era un artigiano, un ceramista, per cui, fin da bambino, mi sono trovato in mezzo agli artigiani. E stare nel laboratorio di mio padre mi ha permesso di vedere come nascevano le forme, di avere tanti materiali a disposizione con cui lavorare: creta, colori, carta. E’ stata una delle lezioni più importanti della mia vita, perché così ho imparato a costruirmi da solo i giochi, le statuine del presepio, ecc. Fare qualcosa con la creta è particolarmente laborioso, perché bisogna cuocerla, colorarla e poi cuocerla di nuovo. Insomma, ho imparato a lavorare con la materia, in particolare con la creta. Vedevo come lui impastava il colore e la creta, vedevo i suoi amici al tornio che non sapevano fare un vaso che stesse in piedi. Alla fine, il risultato di tutto un pomeriggio, era un vaso che stava in piedi. Ma a me non interessava tanto il risultato finale, quanto tutti i processi che lo precedevano. Tutte le differenze e le trasformazioni che subiva questo pezzo di creta per arrivare ad essere un vaso banale.
Erano forme in movimento, continuamente mosse, molto più belle del vaso che si otteneva.
Così, da grande, mi è sempre capitato di scoprire altre forme, altre cose, prima di arrivare al risultato che avevo in testa. E sempre le ho trovate più belle e interessanti di quanto poi realizzavo. Ed è il lavoro manuale che mi ha permesso di fare queste scoperte. Tanto che adesso mi fido solamente del lavoro manuale. Quando ho un’idea, metto giù degli appunti, ma non mi fermo lì, perché so che devo lavorarci sopra, trasformarla continuamente. Se devo fare un lavoro su commissione o una pubblicità, è il lavoro che c’è in mezzo ad interessarmi di più. Mi piacciono tutti i passaggi, mi piace la possibilità di iniziare una cosa e trasformarla in un’altra. Di far evolvere quella forma, quel soggetto.
Io posso lavorare anche partendo da un portacenere, non ho alcun problema. Sono sicuro che elaborando la forma di quel portacenere può venir fuori qualcosa di bello, di poetico. Ma questo nel lavoro manuale, non nell’idea. Forse è per questo che non mi fido delle idee brillanti.
D’altra parte, c’è anche una fisicità che mi piace nel mio lavoro. Una fisicità che, arrivando a Milano, è stata la cosa che mi ha disorientato di più, perché era proprio quello che qui mancava. Gli strumenti che si adoperavano all’epoca erano "meno mano possibile". All’inizio, lavoravo in uno studio dove si faceva animazione per la pubblicità. Nello stesso tempo, soffrendo per questa mancanza di manualità, ho affittato un piccolo studio dove andavo a dipingere, lavorando con materiali robusti, grossi. Questo lavoro, più che altro notturno, in cui dipingevo tele gigantesche, lavoravo con il catrame, con la terra cotta, l’ho poi riportato nel cinema d’animazione. Per me il cinema d’animazione, che abitualmente è fatto di pupazzetti, personaggetti con il nasone, immagini ridicole, è un lavoro che ha uno spessore materico, una fisicità, una sensualità. Il lavoro d’animazione e il lavoro di pittura si sono fusi, diventando quello che faccio adesso. Non l’avrei mai pensato, perché la pittura notturna era una cosa personale, che mi serviva per tirar fuori cose intime. Mentre quanto facevo di giorno era la sopravvivenza, il mestiere.
Quando hai capito qual era il tuo segno caratteristico?
A scuola. C’erano dei ragazzi bravissimi, che con un segno solo arrivavano a fare dei personaggi, delle figure, senza doverci tornare sopra. Lì mi sono accorto che non era quella la mia strada. Il mio non era un segno preciso, ma era un segno di movimento, in cui si mescolavano più segni insieme. Anche quando faccio i quadri, raramente faccio un quadro solo e mi concentro su quello, ne preparo cinque o sei e lavoro in movimento. E’ la cosa che mi riesce meglio, che mi libera subito dall’ossessione di fare un’im ...[continua]

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