Il libro di cui ci parla Carlo Ginzburg in questa intervista è Occhiacci di legno, pubblicato da Feltrinelli.

Vorrei iniziare facendoti una domanda sul problema della verità. Tu dai per scontato, ovviamente, che la verità esiste, però la strada per arrivarci, per conoscerla, non è facile.
Dieci anni fa, parlando in America, non ricordo a quale convegno, dissi: "La verità non tra virgolette" e lì ci fu una risata perché tutti in America quando dicono "truth" accompagnano sempre la parola con quel gesto tipico, a due mani, che indica "tra virgolette". Da allora la frase "la verità, senza virgolette", mi sono trovato a ripeterla spesso in America, per definire la mia posizione di fronte a un’ideologia accademica dominante che dice: "Siccome quello è maschio o quella è femmina, quello è nero, oppure quello proviene da un certo strato sociale, allora la verità non si può raggiungere".
Quindi la nozione di verità va mantenuta, però va mantenuta all’interno di un conflitto che avviene in un campo di forze: la verità è una di queste ma si trova ad essere contrastata da altre, innanzitutto dal carattere soggettivo del punto di vista, un carattere ineliminabile quando si parla di discipline come la storia o di scienze umane. Questo è un tema di cui parlo soprattutto nel saggio Distanza e prospettiva.
Noi ci accostiamo alla verità attraverso un punto di vista influenzato dalla nostra formazione, dalla nostra esperienza, dai nostri pregiudizi anche. Ora, a me pare che la nozione di verità debba essere mantenuta, non solo "nonostante" la soggettività del punto di vista, ma anche "grazie" a questa: ci sono delle cose che riusciamo a capire proprio perché siamo dei soggetti fatti così e così, con un’esperienza sociale così e così. Nella soggettività del punto di vista non c’è solo il limite, c’è anche la possibilità di vedere; è come un occhio sensibile a certe onde luminose e non ad altre. Quindi la soggettività, e cioè l’accumulo di esperienza culturale e sociale che fa sì che ognuno di noi è quello che è, oppure il fatto di essere maschio o femmina, non è soltanto un limite, è anche qualcosa che ci consente di conoscere il mondo. Allora, rispetto a una tendenza che dice: "C’è una verità per le donne, c’è una verità per gli uomini", che è un po’ quello che è stato detto in maniera polemica (eccessivamente polemica, secondo me) da alcune femministe, io non voglio rispondere: "Sì, la verità si può raggiungere, è oggettiva", ma: "Sentite, cerchiamo di arrivare a una forma di oggettività, tenendo però presenti tutti gli elementi che legano il singolo al suo corpo che è sessuato, alla sua identità sociale che è specifica". Se si arriverà a riaffermare l’oggettività oltre tutto questo, essa avrà un valore diverso e più profondo.
Certo, a questo punto cominciano i problemi: come rendere questa verità comunicabile e intersoggettiva? Le tecniche di controllo, di verificazione diventano decisive. Pensiamo solo all’importanza del tema della prova. La prova è legata a metodi che cambiano a seconda delle discipline, addirittura delle sottodiscipline; il tipo di prova per uno storico è legato anche all’abbondanza di materiale documentario. Se io su una società ho soltanto due pezzi di coccio le prove saranno necessariamente molto scarse, meno rigorose, più esposte alla confutazione; più so, quindi, e più posso alzare il livello della prova. Certo, è anche vero che il sapere non è in funzione puramente dell’abbondanza fisica e materiale, ma dipende anche dal modo in cui questo materiale è stato ottenuto; gli storici dell’antichità, che avevano e hanno tuttora meno materiale degli storici contemporanei, avendolo letto e analizzato in maniera molto più esigente e rigorosa, hanno contribuito ad alzare il livello della prova, mentre invece gli storici dell’età contemporanea, che sono sommersi dal materiale, tendono a usare meno immaginazione nelle loro analisi.
Nel primo saggio, tu affermi l’importanza del non-capire, del non-sapere, l’importanza del punto di vista dell’animale o del bambino; così come dici che spesso ti capita di dover risalire dalla risposta alla domanda...
Sì, al centro del primo saggio, che è una sorta di chiave di lettura per tutti gli altri, c’è l’idea che il non capire sia qualcosa di molto fecondo, che sia la premessa per capire di più; l’idea che per capire veramente occorra liberarsi dal sapere convenzionale passando anche per momenti di ottusità. Mi piacerebbe che fosse così anche per me, e q ...[continua]

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