Angelo Valente, 25 anni, operaio metalmeccanico, è delegato sindacale della Fim-Cisl presso il Mollificio Sant’Ambrogio di Cisano, in provincia di Bergamo.

Ho cominciato a lavorare presso un artigiano che montava porte blindate. Ascoltavo la radio locale e ho sentito che cercavano operai. Mi sono presentato e mi hanno preso subito. In azienda c’era il padrone, un pensionato che dava una mano, io e una segretaria. Preparavamo le porte, mettevamo su i pannelli, montavamo le serrature, predisponevamo i lucchetti con le combinazioni. Poi andavamo a montarle nelle case private e negli uffici. L’unica fatica era quando dovevamo portarle ai piani alti. A me piaceva moltissimo perché eravamo sempre a contatto con la gente. Sono sempre stato estroverso e facile ai rapporti sociali. Sono rimasto lì sei mesi. Il padrone continuava a dirmi: “Ti metto ai libri. Ti metto in regola”, ma non l’ha mai fatto. Prendevo seicentomila lire al mese. Con le mance che davano i clienti arrivavo al milione. Non c’erano orari. Qualche giorno non c’era niente da fare e andavo a casa. Altri giorni lavoravamo fino alle otto di sera. Io prendevo il fisso mensile. Il rapporto con il padrone, se non fosse stato perché non mi metteva in regola, era ottimo: era un rapporto da amici più che da padrone e apprendista. Era una persona eccezionale che mi faceva molto divertire. Avrà avuto trentatré anni. Parlavo molto con lui di tante cose. Eravamo in confidenza. Aveva un bel modo di coinvolgermi nel lavoro. Diceva: “Dai che facciamo. Dai che andiamo”. Se fosse stato per me sarei ancora lì, è stato mio padre a insistere perché me ne andassi: “Non sei in regola, non ti mettono ai libri, se stai male non hai la mutua, non hai le marchette della pensione”.
Così mi sono trovato un posto come idraulico. L’ho trovato leggendo un giornale. Cercavano un apprendista. Mi hanno preso. Il rapporto con il padrone era zero. C’era da mettersi le mani addosso. Erano due soci. Con uno avevo un ottimo rapporto, ma a me toccava lavorare con il rompicoglioni. Facevamo impianti industriali. Io dovevo fissare le staffe, mettendole in bolla. Inizialmente me l’ero preso a cuore, poi ho lasciato perdere. Pretendeva troppo: “Fai questo, fai quell’altro”. Un giorno mi ha scagliato contro una bolla, io gli ho tirato dietro un martello. E’ arrivato il padrone della ditta per la quale lavoravamo dicendo che non voleva baruffe. Lui aveva 34 anni, io 17. Allora mi ha preso l’altro socio con il quale non avevo problemi. Quando mi avevano assunto mi avevano detto che avrei preso una bella paga: un milione e sei. Cominciavamo alle sette del mattino e finivamo alla sera alle sette, sette e mezzo. Mi sono trovato con ottocentomila lire di stipendio, motivate dal fatto che mi avevano dovuto pagare il pranzo e la cena. Ho aspettato tre mesi. Poi ho detto loro che prendevo troppo poco, non volevano darmi di più e me ne sono andato.

Mio cognato lavorava in una ditta che faceva troncatrici, la Imet. Mi aveva detto che c’era posto, che c’era la mensa e tante belle cose, a due passi da casa. Sono andato a lavorare in questa azienda il 23 marzo ’91. C’erano cinquanta operai. Avevo un buonissimo rapporto con tutti. Era una ditta di matti fantastici. C’erano giovani e anziani, ma tutta gente giovane dentro. Il primo giorno mi hanno messo a un trapano a colonna. Poi mi hanno messo alle macchine computerizzate, alle macchine a controllo numerico, agli sbavatori. Quello che c’era da fare lo facevo. Mi hanno fatto vedere come si facevano i programmi e io li ho fatti. Tutti questi attrezzi io non li conoscevo. La scuola che avevo fatto non mi è servita assolutamente a nulla rispetto ai lavori che mi sono trovato a fare. Forse mi è servita un po’ la matematica per fare i calcoli. Ma non ho mai avuto difficoltà tecniche nel lavoro. Credo di essere uno che impara subito quello che c’è da fare.

A diciotto anni prendevo un milione e quattro. I soldi li ho sempre dati tutti in casa. Mi tenevo l’acconto di due-trecento mila lire. Adesso mi tengo mezzo milione, è tutto quello che mi serve. La mia unica vera passione è andare allo stadio a vedere le partite. Vado col mio gruppo a fare il tifo e a fare casino. Gli abiti me li compera tutti mia mamma. Li sceglie lei. Non faccio nulla per vestirmi. Se le donne lavorano bisogna dare una mano. Ma se non lavorano il loro mestiere è pulire. Così non scelgo mai nulla, né vestiti, né scarpe. L’unica cosa che mi sono comperato sono stati gli anf ...[continua]

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