Vincenzo Balestra è responsabile del Sert di Vicenza.

Quando è entrato in funzione il vostro servizio?
Qui a Vicenza, il servizio per le tossicodipendenze è nato nel gennaio dell’81, ufficialmente. L’ottobre dell’80 era stato il mese dei decreti Agnasi sul metadone, quindi il grande dibattito riguardava se utilizzare o meno il metadone. C’era una situazione quasi pionieristica del servizio, bisognava chiarire il ruolo dello psicologo, il ruolo del medico, l’uso del metadone, il tipo di terapia... Dopo tre, quattro anni c’è stato il boom delle comunità terapeutiche, con un investimento anche magico soprattutto da parte dei genitori, che vedevano qualcuno che prendeva i propri figli e se li portava via per farli guarire. Il primo periodo è stato molto conflittuale tra i servizi pubblici e le comunità terapeutiche e noi l’abbiamo vissuto in pieno, dato che eravamo considerati dall’opinione pubblica "i supermarket del metadone", quelli che praticamente davano la droga di Stato, al contrario delle comunità che lavoravano invece per la salvezza dei tossicodipendenti. Fummo duramente attaccati anche dai comitati genitori, in una situazione in cui non c’era alcuna normativa che inquadrasse la nostra posizione, quindi precarietà del lavoro, difficoltà ad essere riconosciuti all’interno dell’ambito sanitario, anzi non era ancora stato chiarito se si trattava di un problema sanitario o sociale. Insomma, furono anni molto difficili. Le cose sono un po’ cambiate quando, in seguito ad una riflessione interna, abbiamo deciso di creare una comunità terapeutica pubblica, perché ci rendevamo conto che alcuni soggetti avevano bisogno di essere separati da chi veniva in ambulatorio ed essere trattati a parte. E volevamo anche capire, al di là di quello che accadeva all’interno delle comunità terapeutiche di cui peraltro si sapeva ben poco, che cosa significasse fare una terapia, in particolare una psicoterapia con le famiglie e con i tossicodipendenti.
Abbiamo capito quasi immediatamente che qualsiasi intervento doveva essere integrato, superando la divisione tra psicologi e medici, ossia tra psicoterapia e trattamento farmacologico. Doveva essere predisposto un approccio di mini équipe per ogni singolo caso. Di lì è iniziato tutto un lavoro di differenziazione degli interventi che ha portato poi alla suddivisione del servizio in tre moduli operativi. Un ambulatorio medico, per le varie prestazioni sanitarie (crisi d’astinenza, tutte le terapie per le patologie collegate, visite mediche, screening per le patologie infettive), la comunità terapeutica diurna e infine un terzo polo per tutti i soggetti non in trattamento con metadone, ma con antagonisti o psicoterapie individuali, ossia un centro di diagnosi e psicoterapia.
Nel frattempo, ci eravamo aperti a tutta la cittadinanza, insegnanti, genitori, studenti. Abbiamo deciso di investire molto nella prevenzione perché la terapia, sebbene facessimo degli interventi sempre più corretti, poteva incidere solo su una piccola parte di chi era già dentro. Era molto più importante intervenire per prevenire la domanda di droga. Sempre in quegli anni, insieme all’ospedale di Sandrigo, abbiamo iniziato un’attività anche nei confronti degli alcolisti ed è nato il modulo di alcologia. Questo poi è rimasto nel tempo. Insomma, quando il Dpr 309/90 ha istituito sul piano nazionale i Sert, noi eravamo già pronti. Avevamo già questa organizzazione, i moduli operativi: ambulatorio medico, comunità terapeutica diurna, centro di diagnosi e consulenza e psicoterapia, centro di alcologia. Avevamo anche individuato delle aree di intervento secondo le funzioni che ci attribuiva il ministero, costituendo gruppi di lavoro intermodulari. Nel frattempo, anche l’équipe si era consolidata, avevamo seguito corsi di formazione ed eravamo più esperti. Il lavoro svolto con le famiglie, il fatto che anche le comunità terapeutiche stessero ripensando il loro lavoro dopo essersi rese conto di trattare soltanto una piccola quota di tossicodipendenti, oltre all’evidenza che molti erano ricaduti nonostante la comunità, hanno portato a una maggiore visibilità nel territorio. Il contatto con le comunità del territorio, le realtà del volontariato locale e le cooperative di solidarietà sociale ha permesso di creare una rete. In fondo, siamo riusciti nonostante le numerose difficoltà e notevoli problemi a integrarci pur nelle differenze tra pubblico e privato, e a superare l’idea della risposta unica, del p ...[continua]

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