Carlo Formenti, giornalista del Corriere della sera, ha pubblicato Piccole apocalissi, per Raffaello Cortina Editore.

Da mesi si parla della fase critica che stanno attraversando i quotidiani e i periodici italiani. Qual è la situazione attualmente?
In Italia la carta stampata ha avuto da sempre tirature e diffusioni più basse che in altri paesi, come l’Inghilterra, gli Usa, la Germania riguardando in un primo tempo solo l’élite degli strati sociali dirigenti. Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un processo di alfabetizzazione di massa che però è passato soprattutto attraverso la televisione e i mezzi audiovisivi. Non va poi trascurata la presenza di una proprietà della carta stampata che ha seguito non tanto logiche industriali, quanto politico-industriali, costituendosi in lobby di controllo di settori dell’opinione pubblica. Dal punto di vista dell’organizzazione produttiva e del lavoro, del tipo di assunzioni, delle politiche del personale, ha pesato più questo che una logica di razionalizzazione industriale. Tale situazione è venuta cambiando nell’ultimo decennio, parallelamente alla crisi del settore. Negli anni Novanta, infatti, c’è stato un calo costante di fatturato e di copie diffuse, soprattutto per quanto riguarda i quotidiani nazionali e locali, con la chiusura di varie testate e un’ulteriore concentrazione produttiva. A questo punto si è imposta la necessità di riequilibrare il rapporto fra le funzioni di manipolazione del consenso e le funzioni di industria culturale. Questa fase ha avuto come strumento fondamentale la ristrutturazione e l’introduzione di nuove tecnologie. Basti pensare che il più grosso gruppo editoriale italiano, la Rizzoli Corsera, ha un sistema editoriale vecchissimo dal punto di vista tecnologico e del flusso della rete informatica interna, possedendo terminali cosiddetti "stupidi" con funzioni molto rigide e con tecniche di hardware assolutamente obsolete. Adesso che si tenta di introdurre nuove tecnologie, di cambiare tutta l’organizzazione del lavoro, ci sono grossi problemi. La Rizzoli è un punto di riferimento abbastanza importante, perché è il gruppo che ha vissuto la crisi più grave sul versante finanziario e produttivo, anche se il Corriere della sera resta la parte sana, dal punto di vista dei profitti, del gruppo. Altri periodici, invece, hanno avuto un vero e proprio tracollo, frutto di un’operazione di alcuni anni fa, il famoso pasticcio dell’acquisizione del gruppo Fabbri per conto dell’Ifi di Agnelli da parte di Gemina. Questo gruppo aveva dei bilanci gonfiati, un buco di mille miliardi, pagato da tutto il settore periodici, con licenziamenti di personale, e messa in cassintegrazione non solo del personale tecnico, ma anche dei giornalisti. Invece, più avanzato dal punto di vista tecnologico è il gruppo Mondadori.
In questo processo di ristrutturazione, com’è cambiata la situazione di chi lavora nel campo dell’editoria?
Credo vadano innanzitutto distinte la posizione del giornalista e quella del lavoratore ex-poligrafico, perché le funzioni tecnico-artigianali classiche dell’editoria sono state completamente sostituite dalle nuove tecnologie. Chi è rimasto all’interno del processo produttivo delle grandi imprese svolge oggi funzioni completamente diverse da quelle tradizionali, gli altri sono stati messi in prepensionamento, oppure estromessi e riassorbiti da strutture di service esterno che svolgono attività completamente nuove. Oggi che si parla di postfordismo e di lavoro autonomo di seconda generazione, in cui l’aspetto comunicativo, gli elementi di relazione e di scambio hanno una funzione fondamentale, il giornalista può sembrare una specie di precursore o antesignano, perché è ad un tempo un lavoratore dipendente e un lavoratore autonomo. E’ un lavoratore dipendente perché ha un contratto di lavoro subordinato, è inquadrato in un ordine professionale, che gli dà, o dovrebbe dargli, una serie di tutele rispetto alla proprietà delle testate. D’altra parte, è un lavoratore che si costruisce un suo patrimonio individuale di conoscenze, di relazioni e di canali attraverso cui può acquisire determinate informazioni nel corso di un percorso di formazione professionale in diverse testate. In pratica, si trova nella situazione di gestire il suo posto di lavoro come se, almeno in parte, fosse un suo ufficio privato, che lui mette a disposizione della testata. Questa almeno è la figura tradizionale del giornalista che si struttura su diver ...[continua]

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