Marco Revelli, storico, insegna all’Università di Torino. Recentemente ha pubblicato presso Bollati Boringhieri Le due destre.

Viviamo una fase in cui i modelli sociali e produttivi, come quelli politico-culturali, sono entrati in crisi. In che misura questa fase segna una rottura, una discontinuità con il passato?
Noi stiamo vivendo la fuoriuscita da un secolo che, con estrema semplificazione, definirei fordista, determinato da modelli di produzione e soluzioni politiche tipiche dell’epoca della produzione di massa, dello Stato sociale, del primato della fabbrica rispetto alla società, al mercato. Secondo me si possono riscontrare tre punti forti di frattura.
Il primo è costituito dalla rottura del circolo virtuoso tra crescita industriale e coesione sociale, o meglio tra sviluppo industriale e livelli occupazionali; rottura che ha a che fare con il salto tecnologico e organizzativo consumatosi con la terza rivoluzione industriale, incentrata sulla rivoluzione informatica e dei trasporti. Dentro questo salto, fatto di robotizzazione e toyotismo, si consuma un salto di paradigma che riguarda il rapporto fra produzione e società. Nonostante alti e bassi, infatti, l’epoca fordista aveva sempre visto una crescita parallela tra sviluppo industriale e occupazione: l’industria cresceva, occupava nuovi spazi sociali e coinvolgeva fasce crescenti di popolazione. Il criterio che la guidava era quello dell’economia di scala, tipico della produzione di massa: la produzione generava da se stessa il proprio mercato grazie alla diminuzione dei costi fissi, realizzata attraverso l’espansione del volume produttivo e la ripartizione di questi costi fissi su unità di prodotto sempre più numerose, il che permetteva una diminuzione dei prezzi e quindi un accesso a fasce di popolazione sempre più ampie. Questo meccanismo ha funzionato imperfettamente nella prima metà del secolo, producendo degli sconquassi, tra cui la crisi del ’29, che fu crisi di sovraproduzione: si produceva di più, ma i salari rimanevano così bassi che, anche abbassando i prezzi, il meccanismo non si sbloccava; poi ha funzionato benissimo dal ’45 al ’75, nella cosiddetta "età dell’oro del Novecento", "le trenta gloriose", come chiama quel trentennio Hobsbawm, quando il meccanismo è stato oliato dallo stato sociale, che permetteva di far arrivare ai potenziali compratori le quantità di moneta necessaria per sostenere e alimentare la domanda. Mercati vergini venivano via via conquistati da nuovi prodotti. E’ questo il requisito non dichiarato del fordismo: l’esistenza di mercati potenzialmente vergini. Se pensiamo che quando Ford lancia la Ford modello T circolavano negli Stati Uniti meno di 150 mila autoveicoli su una popolazione di circa 150 milioni di abitanti, abbiamo la dimensione di quali spazi vergini si aprissero al produttore.
Ford poteva immaginare di avere di fronte un secolo di sviluppo illimitato prima di saturare quel mercato. Infatti, una produzione guida come quella dell’auto faceva registrare aumenti annui della domanda e della produzione che si aggiravano intorno al 10%, il che significa che ogni 10 anni il parco macchine raddoppiava.
Negli anni Settanta cominciamo ad assistere ad un progressivo irrigidirsi della domanda: la crescita del mercato di auto, per esempio, dal 10% annuo scende al 5%. Negli anni Ottanta la crescita del mercato di auto scende ancora, attestandosi intorno al 3%; negli anni Novanta varia dallo zero all’1%. I produttori scoprono di aver saturato i propri mercati naturali, quelli di chi ha un reddito tale da poter accedere a consumi così costosi. Il primo che lo scopre è Tagichi Ono, il padre del sistema Toyota, il quale, nel libro Lo spirito Toyota, teorizza la necessità di rovesciare la propria filosofia produttiva per attrezzarsi ad una sorta di quadratura del cerchio: come continuare a far profitti e a diminuire i costi in una situazione di crescita lenta, non potendo più usare la leva dell’economia di scala, cioè dell’espansione dei volumi produttivi? La risposta è semplice: cominciare a economizzare sui fattori di costo, che sono sostanzialmente due: lo spazio e la forza lavoro, il costo degli impianti e i salari. E’ a questo punto che nasce la filosofia della fabbrica integrata, della produzione snella, della qualità totale. Questo insieme di tecniche da noi è stato falsamente interpretato come un’occasione per ripersonalizzare il lavoro, ma, nell’intento di chi l’aveva inventato, aveva il puro e ...[continua]

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