Karen Blodokh è la responsabile della Ong tedesca Wadi a Suleimanyja, nel Kurdistan autonomo - nord Iraq, fin dai primi interventi di emergenza del ’91. Qui ci parla della situazione politica e sociale curda e del suo difficile inserimento personale.

Sono venuta in Kurdistan nel ’91. Allora in Germania c’era un forte movimento pacifista, contrario alla guerra del Golfo e all’intervento americano. Organizzavamo un sacco di cose, invitando anche i curdi e i palestinesi, ma eravamo pieni di contraddizioni, perché i curdi, qui, avevano accolto con favore l’intervento americano. Così, m’è venuta la curiosità di capire, volevo venire qui perché volevo sapere. Quando sono arrivata, non conoscevo niente del Kurdistan, non sapevo nulla neppure della situazione che avrei trovato. All’inizio, siamo andati in una zona vicino alla frontiera iraniana. A quel tempo, circa due milioni di curdi erano scappati sulle montagne al confine con l’Iran, mentre altri 500 mila erano fuggiti verso la Turchia. Noi ci siamo messi sulla frontiera iraniana, perché la gente stava tornando, ma non sapeva dove andare, era terrorizzata, quella zona era completamente distrutta, non c’era più niente. Prima dell’offensiva di Saddam, c’era una città di 30 mila abitanti, un’infinità di villaggi, ma quando sono arrivata era stato tutto raso al suolo. Prima, questo non era un paese povero, perché anche i curdi hanno usufruito della ricchezza irachena, le città erano grandi, le case erano a due piani. La prima volta che sono andata a Kaladize, è stato come trovarsi in un cimitero, perché i tetti di cemento delle case, che sono piatti, erano a terra, e sembravano tante lapidi tombali, proprio come in un cimitero. In quella zona, allora, non era ancora intervenuto nessuno e quando siamo arrivati era pieno di rifugiati, che stavano tornando dall’Iran verso i propri villaggi, che non avevano più visto dall’89, da quando, cioè, erano stati deportati nell’ambito dell’operazione Al-Anfal. I villaggi venivano distrutti e la gente deportata nei campi collettivi.
Inizialmente era prevista una permanenza di soli tre mesi, perché questa organizzazione tedesca non aveva mai fatto interventi di emergenza, ma avevamo soldi, -allora tutti davano soldi per i curdi-, e abbiamo fatto un primo intervento di emergenza distribuendo viveri. Poi abbiamo deciso che dovevamo rimanere, perché le necessità erano tante e, soprattutto, abbiamo capito che la distribuzione di viveri non risolveva niente, bisognava ricostruire i villaggi per dare un futuro alla gente. Quindi, abbiamo cominciato a chiedere soldi al governo tedesco e, piano piano, si è sviluppato un progetto, insieme a tutte le organizzazioni che all’epoca lavoravano qui, volto alla ricostruzione dei villaggi, non solo per dare materiale per la ricostruzione delle case, ma anche per cominciare a organizzare forme di sviluppo economico, costruire i pozzi che erano stati riempiti di pietre, far rinascere l’agricoltura, ecc. Gli alberi erano stati quasi tutti bruciati, gli animali non c’erano più, anche le api erano andate via, sebbene non fossero stati usati i gas. L’attacco è stato diverso da regione a regione. Al-Anfal, l’offensiva di Anfal, è stata un attacco contro la gente, li hanno deportati, hanno separato gli uomini dalle donne e la maggior parte degli uomini è scomparsa da allora. Di 182 mila persone non si sa più nulla dal 1988. Le donne sono state portate in prigione e sono state liberate dopo due o tre mesi per essere trasferite nei campi collettivi. Questo è stato Anfal, ma solo in determinate zone, per esempio nel Garmian. Poi, ci sono stati altri tipi di deportazione. Nella zona dove lavoravamo noi, al confine con l’Iran, quando si concluse la guerra Iran-Iraq, il governo iracheno ha adottato una politica di terra bruciata. C’era un accordo con il governo iraniano secondo il quale entrambi i paesi dovevano lasciare vuota la fascia di territorio vicino alla frontiera. Quindi, in quella zona la deportazione è stata molto burocratica: hanno detto alla gente di Kaladiza, 35 mila abitanti, che il tal giorno dovevano essere pronti a lasciare la città e, nel giorno fissato, sono arrivati con i bulldozer, hanno distrutto le case, raso al suolo la città e portato la gente nei campi. Però, questa gente ha ricevuto anche un compenso per la propria casa distrutta. In questo paese non si può parlare di una sola deportazione, ma di tante e tutte diverse.
Appena è stato possibile, superata la prima emerg ...[continua]

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