Nel suo nuovo e luminoso ufficio di rue Vivienne, vicino alla centralissima Bourse di Parigi, Vincent Brossel è più che mai indaffarato. Da alcuni mesi è il referente per Reporter Sans Frontières (Rsf), l’organizzazione che difende la libertà d’espressione nel mondo, della campagna “Pechino 2008” per il boicottaggio della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi. Anche se ha solo 35 anni, da diverso tempo si occupa dell’Asia, uno dei continenti dove è più forte la censura e la persecuzione dei giornalisti. “Otto anni fa ho scelto di lavorare a Rsf, perché volevo cambiare le cose”, confida questo giovane uomo, esile ma determinato. A Olympia ha mostrato in diretta tv un cartello di denuncia contro gli abusi del governo cinese ed è stato arrestato. Grazie ad azioni radicali come questa, “Pechino 2008” ha prodotto una grande eco in Francia e nel resto del mondo, soprattutto nei luoghi di passaggio della fiaccola olimpica. Qui le comunità della diaspora tibetana hanno manifestato, sostenute appunto da organizzazioni come Rsf, perché nella regione autonoma del Tibet vengano rispettati i diritti umani. Brossel ci spiega come il logo della campagna, con le manette al posto dei cerchi olimpici, sia diventato un simbolo forte di questo sentimento di protesta pacifica, che però in alcuni casi è sfociato anche in disordini.

Quando è nata l’idea di realizzare una campagna di boicottaggio della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi?
Tutto è cominciato nel 2001, quando il Comitato Olimpico ha votato perché le Olimpiadi 2008 si tenessero a Pechino. Già allora Reporter Sans Frontières aveva chiesto al governo cinese di impegnarsi per migliorare la situazione dei diritti umani e lui fece due promesse: “Le Olimpiadi aiuteranno a migliorare i diritti umani e ci sarà una libertà di stampa totale prima e durante i giochi”.
Ma non è andata così…
Dal 2001 al 2007 abbiamo avvertito Pechino che le cose non andavano bene, nonostante qualche piccolo miglioramento tecnico a proposito dell’applicazione della pena di morte e dello sviluppo economico della stampa, che portava con sé anche più libertà. Non c’erano cambiamenti di fondo nella politica autoritaria, nel controllo poliziesco e nelle misure adottate in Tibet. Da diversi mesi, dunque, ci troviamo davanti a un muro.
Di che tipo?
Tutto va male: i disordini in Tibet, la repressione dei dissidenti che parlano delle Olimpiadi, la sorveglianza dei giornalisti stranieri, la crescita del nazionalismo cinese, i metodi polizieschi, il passaggio catastrofico della fiaccola, il Comitato Olimpico chiuso nel suo silenzio, gli sponsor che si trovano in una situazione imbarazzante, il regime cinese che diviene più duro in tutto il mondo.
Perché avete deciso di boicottare la cerimonia d’apertura?
Perché è l’avvenimento politico delle Olimpiadi. Capiamo le esigenze degli atleti di partecipare a questa manifestazione e dei giornalisti di andare in Cina per parlare di questo Paese. La strategia dei cinesi, però, è quella di impedire ai giornalisti di incontrare le persone che parlano apertamente, come gli attivisti dei diritti umani, dell’ambiente, delle campagne e i difensori dei lavoratori.
A dicembre, per esempio, hanno arrestato Hu Jia, dissidente di Pechino che parlava senza remore dei problemi del suo Paese (diffusione Hiv/Aids, degrado ambientale, prigionieri politici). Ma non è il solo. Già una decina di attivisti è stata messa in prigione o agli arresti domiciliari, e portata in campi di rieducazione.
Non è la prima volta che una cosa simile accade prima delle Olimpiadi.
Pechino si sta comportando come Mosca in occasione delle Olimpiadi del 1980. E’ più difficile impedire a tutti i giornalisti di venire, che impedire agli attivisti di parlare. Nell’ex Unione Sovietica tutti i dissidenti erano stati messi su minibus e mandati lontano dalla capitale.
Cosa sperate dalla vostra campagna?
La nostra campagna ha rivendicazioni ben precise: liberazione di tutti i giornalisti, cyberdissidenti e militanti per la libertà d’espressione, e abolizione della tortura. Si concentra su una realtà cinese ben precisa e ha avuto un impatto enorme perché il logo (con le manette al posto dei cerchi olimpici) riassume molto bene la situazione. La gente, anche se non è simpatizzante di Rsf, si è appropriata di questo simbolo, disegnato su magliette e bandierine, perché ha voglia di esprimersi. Il comitato Olimpico e le autorità cinesi, invece, hanno dimostrato di disprezzare l’opinione pubbli ...[continua]

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