Darko Bratina, docente di sociologia a Trieste, senatore da due legislature, eletto nelle file del Pds, è l’unico sloveno nel Parlamento italiano.

Puoi raccontare di questa tua visita in Unione Sovietica in veste ufficiale per seguire le ultime elezioni. Dicevi che hai trovato l’Unione Sovietica in una situazione di grande vivacità.
Ci sono andato come osservatore per l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione economica in Europa, un organismo che ormai racchiude 50 paesi compresi Stati Uniti e Canada), che ultimamente ha fatto diversi monitoraggi non solo elettorali ma anche in zone di conflitto: in genere quando ci sono elezioni in un paese importante ci va anche la nostra delegazione.
Il nostro gruppo ha fatto un giro la domenica in cui si è votato; siamo partiti da un seggio elettorale nel centro di Mosca. Abbiamo visto le operazioni formali, il presidente del seggio era vestito con il vestito da festa, in genere era un ingegnere, probabilmente uno con una lunga esperienza del quartiere o del caseggiato. Quello che animava le cose, di sicuro era un funzionario ex comunista o comunista. Era una cosa anche commovente, perché ti trasmetteva l’approccio alla democrazia come un rito importante. Nei seggi c’era anche un rappresentante di lista. E mentre per le formazioni nuove, in alcuni seggi non c’era nessuno, almeno uno dei partito comunista c’era sempre. In genere una vecchia pensionata, una persona affabile che ti intratteneva e magari ti faceva anche un po’ di pedagogia storica.
Con alcune di loro abbiamo discusso su come vivono la democrazia, i cambiamenti. La signora diceva: “Tutto bene, certamente la democrazia ha un valore, però bisogna stare attenti a non esagerare, perché il mercato spinto vorrebbe dire che l’edificio nel quale adesso ci troviamo potrebbe essere venduto, e secondo me non è giusto perché questo edificio anch’io ho contribuito a farlo con le mie mani. Perché qui abbiamo portato con le mani i mattoni, abbiamo fatto la malta”.
Poi nei comportamenti concreti, nell’espressione del voto, c’erano delle cose curiose, che a prima vista ci hanno scandalizzato: vedevi frotte di famiglie che arrivavano e in gruppo esaminavano quel grande lenzuolo, una cosa veramente complicata, che era la scheda elettorale. Si mettevano lì a discutere, a fare paragoni ed erano discussioni vere, probabilmente la replica di discussioni fatte prima in casa. Ma la cosa più buffa per noi occidentali era che, una volta discussa la cosa, spesso si infilavano insieme nella cabina. Incuriosito da una cosa che certamente non corrisponde alle nostre modalità formali, ho avvicinato le persone disponibili a parlare, e mi hanno detto che loro erano abituati a fare così, a fare le cose in famiglia, anche se poi non erano tutti d’accordo: infatti in cabina uno aveva votato in un modo e uno nell’altro. La nostra impressione è stata che l’espressione individuale sia stata sostanzialmente garantita, abbiamo comunque segnalato il problema perché in futuro si faccia meglio. Questo avveniva dentro la città. Poi siamo andati a vedere altri seggi più in periferia e devo dire che la cosa più sbalorditiva è stata che man mano ci addentravamo nella periferia di Mosca, che poi vuol dire nuovi agglomerati, città satelliti, abbiamo trovato un tenore di vita migliore, una maggiore attenzione per il vestiario, scuole tenute decisamente meglio, istituzioni più vivaci. E lì anche i controlli formali erano più rigorosi. Abbiamo trovato una presidente di seggio donna che era la preside della scuola, la quale stava continuamente attenta che le cabine avessero tendine a tre quarti per vedere quante gambe ci fossero, quindi andava, interveniva, spostava. Questo è stato un po’ il clima. Poi la sera siamo tornati al seggio di origine e abbiamo assistito allo spoglio finale e anche lì l’impegno era non indifferente, perché lo spoglio di quelle schede era una cosa materialmente complicata.
Volendo sintetizzare, l’impressione che ho avuto è questa: uno è una specie di ferita nell’orgoglio nazionale che va gestita, altrimenti si dà spazio ad avventure alla Zirinovsky, e che quindi c’è la consapevolezza che si è nell’occhio del ciclone e si è guardati con grande attenzione dalla scena internazionale. L’altra questione è quella sociale, perché il cambiamento ha comunque infranto il patto storico, di welfare, che c’era dentro la formula del comunismo. Per quanto fosse un welfare per poveri, dava comunque sicurezze. Ora ...[continua]

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