Giuliana Sgrena è redattrice de Il Manifesto. Ha curato l’edizione de La schiavitù del velo, composto da testi di donne algerine (giornaliste, politiche, insegnanti, ricercatrici) sul tema dell’integralismo, che uscirà per la Manifesto Libri nel corso dell’estate.

Tu ti rechi regolarmente in Algeria. Puoi dirci le impressioni che hai ricavato dal tuo ultimo soggiorno ad Algeri?
E’ stato per l’8 marzo. Ero interessata ad assistere al Tribunale contro gli integralisti istituito con un atto di grandissimo coraggio dalle donne laiche d’Algeria. Nonostante tutti i diktat dei gruppi armati e il clima di forte tensione, avevano deciso di organizzare una manifestazione pubblica in un teatro, una delle più grandi sale di Algeri, per dare appuntamento alle donne. Il processo simbolico contro l’integralismo era organizzato sotto forma teatrale, con persone che recitavano la parte degli imputati, dei giurati e una pubblica accusa impersonata da una giudice vera, Leila Aslaoui, alla quale hanno ucciso il marito. Sulla scena, poi, le testimonianze erano fatte da chi veramente ha subito attacchi degli integralisti: c’era la vedova del grande commediografo Allula assassinato; il padre di Katia, una ragazza di 16 anni, che forse è stata la prima ad essere uccisa perché non portava il velo; la madre di tre ragazze stuprate contemporaneamente nella stessa notte e altri casi del genere. Quindi realtà e rappresentazione si mescolavano, provocando in chi assisteva un’emozione molto forte.

Sul banco degli imputati sedevano quelli che sono considerati i mandanti del terrorismo, cioè i vari Madani, Rabah Kèbir che sta in Germania, Anouar Haddam che sta negli Usa, poi l’ex-presidente Chadli Bendjedid accusato di aver fatto il primo compromesso con gli integralisti e anche la Comunità di Sant’Egidio per aver dato in qualche modo una copertura a questi personaggi. E’ stata una manifestazione molto importante, animata proprio dalla volontà di partecipare ad un atto pubblico per dimostrare che le donne non si arrendevano, nonostante il rischio di uscire di casa e di farsi vedere a una manifestazione del genere. La sera prima il Gia -Gruppo Islamico Armato- aveva appeso in giro per i quartieri di Algeri manifesti dove si diceva che per l’8 marzo avrebbero ucciso 60 donne.
Una delle caratteristiche del terrorismo islamista è la violenza rivolta contro le donne. Quando è cominciata questa campagna di terrore e, soprattutto, quali sono le sue conseguenze sulla vita quotidiana delle donne che conosci?
Le donne algerine ci tengono a dire che la violenza degli integralisti contro le donne è cominciata molto prima del ’91, cioè dell’annullamento delle elezioni legislative; è infatti dell’89 il primo atto di violenza integralista: a Ouargla, nel sud, gli islamisti avevano chiesto al sindaco di allontanare una donna divorziata che viveva sola con i tre figli perché per loro era immorale che una donna vivesse sola con tre figli, veniva considerata di facili costumi. Quando il sindaco si rifiutò diedero fuoco alla casa della donna, e mentre lei usciva per chiedere aiuto il bambino più piccolo di tre anni rimase carbonizzato. Quindi, questo odio era qualcosa che montava e le donne sono state le prime a lanciare l’allarme perché sentivano crescere l’intimidazione all’interno della scuola, dei luoghi di lavoro, per le strade, nel modo di vivere. Molte di queste donne sono state poi condannate a morte dagli integralisti, i loro nomi sono appesi nelle moschee, ricevono continuamente minacce a casa per telefono, alzano il ricevitore e si sentono i versetti del Corano, vengono a sapere che gli integralisti sono andati dai vicini di casa per conoscere le loro abitudini e dopo anni di questa vita quotidiana molte non ce l’hanno fatta più e sono andate all’estero, soprattutto in Francia. Quelle che sono rimaste hanno in qualche modo subito una trasformazione perché tutte le loro abitudini sono dovute cambiare.
Hanno dovuto mettersi veramente una corazza, rinunciando agli affetti: per esempio, chi fa la giornalista non torna a casa per mesi, perché è costretta a vivere in una specie di albergo sulla costa, tutto bunkerizzato, dove viene prelevata la mattina, portata al giornale e dal giornale non esce finché non finisce il lavoro per essere riportata direttamente lì. Non possono più permettersi di andare a comprarsi un vestito o di andare dal parrucchiere, sono banalità, ma sono cose della vita quotidiana, senza le quali alla lunga ci si i ...[continua]

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