Pietro Marcenaro è segretario regionale della Cgil del Piemonte.

Anche se ora ci sono segnali di ripresa, Torino ha vissuto in questi anni una crisi gravissima. Come l’hanno vissuta gli operai?
Hai avuto una crescita fortissima dell’insicurezza dovuta innanzitutto a una minaccia all’occupazione che neanche nell’80 ha avuto una diffusione così insistente, continua, così prolungata da essere fortemente introiettata e avvertita come il primo dei problemi dalla generalità delle persone. Hai avuto una forte compressione del reddito.
Se tu passi per le strade di Torino e poi passi per le strade di Milano, vedi a vista d’occhio la differenza di reddito, di consumo, di status, tra una città industriale, come alla fine è ancora Torino, e una città terziaria come Milano. Basta osservare come vestono le persone o le vetrine dei negozi. Torino è una città povera, e per certi aspetti è anche la sua bellezza.
Credo che sarebbe importante analizzare la differenza rispetto agli anni ’80. La mia impressione è che gli anni ’80 siano stati l’ultima occasione perché una grande crisi industriale, come quella della Fiat dell’80, diventasse una situazione di caduta per alcuni e di sviluppo per altri, una disgrazia per una parte rilevante, un’opportunità per un’altra parte. Non so quantificare, ma in una ricerca che facemmo allora con Marco Revelli, Guido Viale e altri, si individuava un tipo che chiamammo i pionieri, cioè quelli che utilizzavano il tempo della cassa integrazione in modo attivo, per costruire qualcos’altro nel futuro, per tentare altre strade. Poi alcune non avranno avuto successo e altre sì, naturalmente, ma dentro la dinamica sociale degli anni ’80 c’era questo margine. In una situazione penosa per moltissime persone c’era la possibilità di utilizzare una crisi per farla diventare un’opportunità. Negli ultimi anni questo secondo me non c’è più stato. Forse si potrebbe fare una specie di grafico: negli anni ’50 questa cosa è stata molto forte, è nota, e riguardò operai specializzati, licenziati, gente che conosceva il mestiere, con forte radicamento in una cultura del lavoro, che riusciva a usare quella disgrazia per migliorare. Nell’80 il fenomeno si è ripetuto, con la differenza che gli operai fortemente immersi in una cultura lavoristica vivevano la cassa integrazione come privazione, mentre i giovani, molto meno legati a questa cultura lavoristica, senza specializzazione, con una cultura generica, ma con la curiosità come atteggiamento sociale, uscivano in altre direzioni e tentavano altre strade. Pur essendo cauto -perché poi studiamo tutti pochissimo e anche gli elementi di analisi sono sempre più poveri e può benissimo darsi che queste cose ci siano anche oggi e che sia io a non riuscire a vederle- nella crisi depressiva che si è aperta a Torino intorno al ’90, e che forse solo ora si sta allentando, non ho visto segnali di reazione nel senso di energie che si mettessero in movimento...
Dico questo, perché io credo che, alla fine, i movimenti che contano siano quelli. Nel sindacato c’è uno stereotipo fortissimo per cui per movimento si intende il corteo, la bandiera, la manifestazione e lo sciopero. Si dimentica spesso che i movimenti reali sono fatti innanzitutto dalle scelte che le persone fanno quotidianamente per cercare la propria strada, che poi alla fine determinano i movimenti anche in campo sociale. E’ una banalità ma che, nella vita politica, non è assolutamente acquisita né a sinistra né a destra, dove pure questa idea è praticata, ma senza averne consapevolezza.
Allora, a Torino in questo periodo, ho avuto l’impressione di vedere in atto solo strategie di sopravvivenza, dove ha contato moltissimo la famiglia. A Torino di ragazzi che vanno a vivere per conto loro ce ne sono sempre meno, l’uscita dalla famiglia è sempre più ritardata, ben oltre la fine degli studi e ben oltre l’inizio del lavoro per quelli che hanno studiato poco, a volte neanche il matrimonio risolve la questione. Una strategia di sopravvivenza che ha usato a piene mani gli ammortizzatori sociali, anche qui in modo molto differenziato perché nelle grandissime fabbriche, alla Fiat in particolare, all’Olivetti, diciamo in generale nella struttura della grande azienda, dove il sindacato è presente, dove esiste un’organizzazione operaia, gli ammortizzatori sociali hanno funzionato in modo massiccio. La cassa integrazione sarà poco, ma comunque è stata la diga per la tutela di reddito e per conservare qualche elemen ...[continua]

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