Umberto Fiori è una delle più belle voci della nuova poesia italiana. Ex-leader degli Stormy Six, gruppo storico del rock politico italiano, ha pubblicato, tra l’altro, Case (San Marco dei Giustiniani, 1986)
e Esempi (Marcos y Marcos, 1992).

La poesia può essere qualcosa di più di un territorio di dominio dell’estetica, avere una qualche forma di efficacia, essere principio di una comunità o di un abitare?
Sull’efficacia in generale della poesia avrei molti dubbi. Senz’altro su di me in qualche modo l’ha avuta. Il discorso sull’efficacia della poesia va fatto in prima persona e la prima persona può anche finire per essere l’unica. La comunità è un orizzonte di fronte al quale tu lavori. Che poi questa comunità esista di fatto è tutto da vedere. Io ho iniziato negli anni ’80 -perché è allora che ho cominciato a scrivere veramente, anche se ho scritto fin da ragazzino- cercando di scrivere per una comunità che io mi immaginavo; una comunità linguistica prima ancora che politica giacché la poesia lavora su questo. Per me si trattava di trovare quella che più tardi ho chiamato “una frase normale”, un modo normale di parlare che avrebbe potuto mettermi in comunicazione con una comunità normale. “Normale” naturalmente inteso in senso forte, cioè una comunità a venire che però non doveva essere una comunità migliore di quella che già mi era data, doveva anzi essere, in un certo senso, una rivelazione di quello che veramente era la comunità di fronte alla quale mi trovavo ogni giorno. Per me si trattava di ristabilire un rapporto normale con le normali persone con le quali mi trovavo tutti i giorni ad avere a che fare. Tra l’altro per me era anche una specie di riatterraggio; io ho lavorato per molti anni fuori da Milano, in giro per l’Italia e per l’Europa, suonando di qua e di là. A Milano non avevo mai abitato realmente. Negli anni ’80 mi trovavo invece da solo ad abitare a Milano.
Questo fatto che, dal punto di vista personale, è stato un momento di grossa crisi mi ha messo però, nello stesso tempo, anche nelle condizioni migliori per dovere rendere conto di come parlavo, di che cosa facevo e anche di come potevo rendermi utile. In quel momento ho dovuto decidere di cosa fare della mia vita e ho cercato di rendermi utile insegnando, facendo quello che valorizzava quel poco o quel tanto che potevo avere appreso. In quel momento per me la poesia è diventata più un debito da pagare che qualcosa che poteva funzionare come una specie di ingegneria sociale o di mezzo di persuasione o di propaganda. La poesia ha funzionato su di me nel senso che in essa misuravo il mio stare al mondo e nella misura in cui riuscivo a parlare normalmente, cioè a far funzionare delle frasi normali, per me esisteva una comunità ed esistevo io in quella comunità.
Cosa aveva alterato questo rapporto normale con le cose?
Molto probabilmente una certa idea di "cambiamento" che era un po’ prepotente rispetto a quella che poi ho maturato. L’idea che nutrivo, in comune, del resto, con molti della mia generazione, era quella di uno stato di cose da instaurare, di un’utopia o anche soltanto un miglioramento; si trattava comunque di una volontà che doveva realizzarsi nelle cose e che quindi si contrapponeva alle persone, al loro modo di essere, al loro modo di ragionare, di parlare, che voleva modificarle. Nelle poesie che ho scritto poi l’espressione "a un certo punto" -senza che me ne rendessi conto, me ne sono accorto dopo-, è una locuzione ricorrente, ma "ad un certo punto" ho dovuto cominciare a dialogare e a venire a patti proprio con lo stato di cose esistente e questo patteggiare, in realtà, non è stata neanche un cedimento. In quel periodo ci sono stati senz’altro dei cedimenti politici e anch’io ho dovuto fare dei compromessi, ma dal punto di vista della lingua e della poesia si è trattato quasi di una messa a fuoco più che di un cedimento: mi sono reso conto che fino a quel momento contrapponevo un mio modo di vedere che ritenevo più avanzato, più giusto, a un modo di vedere comune che per me era un ostacolo, qualcosa che mi frenava. Io, tra l’altro, ho avuto un’esperienza molto pesante, ma anche molto preziosa e decisiva per quello che sono stato dopo, che è stata quella di girare in tutta Italia, andando nei posti più sperduti del paese a proporre quello che scrivevo o cantavo.
In quelle occasioni ci trovavamo di fronte il "popolo italiano" che però lì era vero, era vivo, ti guardava negli occhi e si aspettava che tu gli dicess ...[continua]

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