Francesco Campione è tanatologo e direttore di “Zeta”, rivista che si occupa della morte e del morire.

Nel morire dei malati di Aids c’è un qualcosa che è dovuto alla particolarità della malattia?
Direi che ci sono alcune specificità, ma in un quadro di immutabilità. Morire è sempre qualcosa di relativo al modo di essere di ciascuno. Ciascuno muore a modo suo, per qualunque ragione muoia. Questo è riferito alla morte. Altra cosa è il morire, cioè quel periodo della vita che uno sa sfocerà nella morte. Qui le cose possono cambiare a seconda della situazione esistenziale propria di questo morire. Evidentemente chi muore di Aids ha una situazione esistenziale particolare; il suo morire è particolare. Innanzitutto è un morire sotterraneo, senza pubblicità, pieno di vergogna, un morire che bisogna nascondere. In un certo senso è l’ultima emergenza della morte impudica, un’emergenza moderna. Ormai non c’erano più morti di questo tipo, nessuno si vergognava per il fatto di essere in una condizione di morente. Magari si arrabbiava, magari cercava di incolpare qualcuno o si sentiva in colpa, ma uno che moriva, in generale, di qualunque cosa morisse, non si vergognava di questo.
Nel caso dell’Aids c’è una complicazione, una specificità. La specificità fondamentale deriva dal fatto che il malato di Aids è circondato da un atteggiamento particolare nella nostra società, in fondo è un appestato. Un appestato moderno. Ci sono anche quelli che muoiono di Aids per avere fatto una trasfusione e le cose si complicano ancora di più perché entrando in un circuito in cui la maggior parte delle persone muore di Aids per altre ragioni -per un contagio sessuale, per tossicodipendenza, per omosessualità- questi si sentono ancora più emarginati. E questo ci conduce a parlare di un’altra specificità, che è il modo di elaborazione del proprio morire. In fondo il morire può essere interpretato come quella fase della vita in cui una persona riesce a vivere se elabora il lutto per la propria morte, altrimenti va in una crisi profonda.
Rispetto a questo, a seconda di che morte si tratta, ci sono delle specificità proprie dell’elaborazione del lutto per la propria morte. Nel caso dell’Aids è molto frequente che ci sia un ostacolo a questa elaborazione, un particolare ostacolo che è la rabbia. Si riesce ad accettare meno di morire di Aids, non solo perché si può morire giovani, ma soprattutto perché si può essere arrabbiati. Io metterei l’accento su queste due specificità: il carattere di vergognosità, che deriva in qualche modo dalla cultura, dal modo in cui il malato di Aids viene interpretato nella nostra cultura, cioè come un appestato e la prevalenza di uno degli ostacoli classici all’elaborazione del lutto, cioè la rabbia.
Ma sia la vergogna che la rabbia non hanno anche prodotto una riappropriazione della malattia, della condizione di morente, assieme agli altri, come difesa, come motivo per ritrovarsi?
In un certo senso questo è vero. Però bisogna stare attenti, perché c’è interferenza tra la sottocultura dei gruppi di malati di Aids e le sottoculture dei gruppi da cui questi malati già provengono, ad esempio la sottocultura dei tossicodipendenti, dell’omosessualità. Intendo naturalmente sottocultura nel senso di “under”: nascosta, ai margini. E questa è una complicazione che può ostacolare il costituirsi di un gruppo. Un morente di Aids extossicodipendente e un morente omosessuale difficilmente si capiscono e questo può creare complicazioni. Non solo, ma c’è una complicazione più grossa che deriva dall’esperienza. Abbiamo visto nell’esperienza dei gruppi di autoaiuto, dei gruppi di psicoterapia, che spessissimo ci sono vicende di abbandoni, di riprese, per cui non si possono considerare veri e propri gruppi. La ragione fondamentale di questo, a mio modo di vedere, è che quando uno vive una condizione esistenziale così specifica, così unica, così individuale, come quella del soffrire e del morire, è difficilissimo stabilire rapporti con altri, perché è difficilissimo trovare punti di contatto. Certo possono esserci, però ci sono grossi ostacoli. Per questo io direi che queste cose sono un po’ mitizzate, nella realtà non è così. Sono gruppi veramente precari, la realtà è spesso una realtà di angosce. Dove il gruppo può servire, e spesso serve, è nell’aiutare una persona a rendersi conto che le risposte che si dà sono risposte parziali e che ce ne sono altre, che altri danno. Che possono essere un motivo per andare al di là da ...[continua]

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