Abbiamo tutti dei momenti di disperazione e pensiamo: "Chi me lo fa fare?". Anch’’io, certo, però poi se si riesce a contare fino a tre, a chiudere gli occhi e riaprirli forse può capitare come a me di chiedersi: "Come ho fatto a pensare una cosa simile?". Il mio primo medico, che fra I’altro era un grande amico con cui ero cresciuta insieme in parrocchia, condividendo gli stessi ideali, mi ha messo di fronte a due possibilità: potevo abortire o potevo portare avanti la maternità. Lui come medico probabilmente doveva dirmelo, però mi ha fatto male, forse perché mi sentivo già legata a questo figlio che, anche se agli inizi, viveva in me. Avrei preferito che non mi ponesse quell’alternativa.

L’altro medico invece mi ha fatto sempre i complimenti per "il mio coraggio" per non volere fare una cosa, l’amniocentesi, che ormai quasi tutte vogliono fare prima di tutto, prima ancora di prendere in esame le due possibilità. Mi disse che al giorno d’oggi anche le giovani la vogliono fare ed io l’ho trovato profondamente sbagliato. Fra l’altro, poi, alcune hanno avuto la sorpresa di scoprire che il bimbo, che dall’analisi risultava anormale, poi era nato normale, e allora? Quando si è già buttato via? E comunque è giusto buttare via il bambino non normale?

Io ho quattro figli, ci sarà il buono e il meno buono, e allora? Una mamma dà meno a quello buono e dà di più a quello meno buono se riesce a fare le parti giuste. E allora se avessi avuto un figlio con handicap me lo sarei tenuto, avrei costretto tutta la mia famiglia a tenerselo, avrei lottato con tutte le mie forze affinché le cose fossero andate in quel senso.

Avevo cercato di preparare i miei figli, ma soprattutto me stessa, alla possibilità. Perché anche se si accetta la cosa, se si decide di non cercare, di non vedere, sapevo bene, vista l’età, che potevo andare incontro alla nascita di un bambino diverso da quella che è la norma. Avevo vissuto da vicino anche altre esperienze, in particolare quella di una mia amica di Bologna con cui avevo molto parlato, perché si sente la necessità di non decidere da sole, si ha bisogno di parlarne con altri, di sentirsi rassicurate. E quando lei rimase incinta mi chiese: "Cosa faccio, tu cosa pensi, faccio bene a non fare questa amniocentesi?". Per lei era il quinto figlio: quattro suoi e uno adottato. Decise di non fare niente, forse anche perché dopo quattro figli, tutti normali, si è portate a sottovalutare il rischio: invece, nacque una bambina mongoloide al 100%. Avrebbe potuto decidere di lasciarla, di non darle il nome, il medico glielo disse lì, di fianco al lettino, perché secondo loro era una bambina che avrebbe vegetato e basta. La prima settimana fu da impazzire: con un medico che ti viene a dire una cosa simile, col rifiuto istintivo di una bambina nata in quel modo, lei dice che per un po’ ci ha pensato, ha pensato che in fondo aveva già quattro figli suoi e uno adottato, di due anni e mezzo, che il suo daffare ce l’aveva già... Ma dopo una settimana ha reagito. Il primo anno è stato un inferno, perché la bambina non cresceva, doveva essere alimentata in un modo tutto particolare. Adesso, certo, resta una bambina mongoloide con problemi gravi, ma almeno parla. Lei è andata in pensione, era insegnante di matematica, e con suo marito che è docente universitario, sono andati a vivere in una comunità, dove ci sono altri bambini con problemi simili e quindi non sono soli, si aiutano con altri. Soprattutto la bambina può relazionarsi con altri bambini. Certo, resterà per sempre bambina, perché sono come bambini beati che non riescono a vedere il lato negativo delle cose, però lei dice che ha avuto tanto da questa bambina, che le gioie, la voglia di vivere che le ha dato questa figlia non uguale agli altri, non gliele hanno date tutti gli altri. E una tale serenità l’ho riscontrata in tanti altri genitori in quelle condizioni: è una cosa che fa impressione. Avranno certo altri problemi, come cambiare i pannoloni a 14 anni o dover imboccare bambini che non hanno la possibilità di farlo da soli, ma certamente non ne hanno altri che noi abbiamo: lo stress, il correre da una parte all’altra, perché dobbiamo essere vestiti in un certo modo, per andar dalla parrucchiera, per l’etichetta, per il tenore di vita, cose che anche se uno è portato ideologicamente a rifiutare, ne è preso involontariamente, automaticamente. Cose a cui ci attacchiamo e senza le quali ci sembra che ci manchi qualcosa di essenzial ...[continua]

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