In tempi di feroce austerità come questi, in cui il Portogallo si trova ad affrontare una crisi senza precedenti con provvedimenti lacrime e sangue che lo vedono boccheggiare al pari quasi della Grecia, non sorprende vedere questo paese cercare nuovi orizzonti o ripristinare vecchi legami ideali e reali. Quasi 250 milioni di persone al mondo, infatti, dislocate in quattro continenti, parlano portoghese. Un numero pari, se non superiore, a quelle di lingua francese e che rappresentano un bacino di attenzione significativo in alternativa o a complemento dell’appartenenza alla traballante e poco rassicurante Ue. Facendo seguito alla riforma ortografica della lingua portoghese, che ha accolto con tanto di atto del Parlamento molte delle varianti brasiliane e di altri paesi interessati, alla ricerca di una maggiore omogeneità linguistica, cresce, pur tra mille difficoltà e ristrettezze di bilancio, l’azione promotrice e ambiziosa della Comunidade dos Países de Língua Portuguesa (Cplp), la Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese formata da Angola, Brasile, Capo Verde, Guinea-Bissau, Mozambico, Portogallo, São Tomé e Príncipe e Timor Est e altri Paesi Osservatori o Associati con minoranze linguistiche portoghesi o legami storici non immediatamente identificabili quali Croazia, Romania e Ucraina. Cosa che, peraltro, cercano di fare da tempo anche la Francia e la Spagna sulla scia del più consolidato ma mastodontico Commonwealth Britannico. Il Portogallo lo fa chiaramente e consapevolmente a ruoli invertiti: mentre in proprio arranca, il Brasile è infatti in crescita tumultuosa e minaccia a breve di superare Francia e Gran Bretagna nelle graduatorie delle potenze economiche, e l’Angola è il secondo più importante produttore di petrolio dell’Africa e la terza economia del continente. Anche se non mancano naturalmente le contraddizioni e i problemi in entrambi questi Paesi, specie nel secondo, dove oltre metà della popolazione è costretta a vivere alle soglie della fame e, nella stessa capitale Luanda, il 91% della popolazione non ha ancora l’acqua corrente. Per non dire della corruzione endemica e della mancanza di democrazia interna e di mobilità sociale che impediscono alla nuova ricchezza da petrolio di percolare in basso a vantaggio della popolazione più povera, restando appannaggio esclusivo della classe dominante post-coloniale. Ed è così che, a fronte di un declino apparentemente inarrestabile, in Portogallo, dove la disoccupazione è a livelli parossistici e la stretta creditizia costringe chi ancora può permettersi di comprare casa di attingere unicamente a risorse proprie (il 75% delle compravendite avvengono ormai in contanti in assenza totale di mutui bancari), la gente ha cominciato a emigrare nuovamente in forze, senza aspettare che desse il la il primo ministro di centro-destra Pedro Passos Coelho. Non già e non più solo nei paesi di destinazione tradizionale (Francia, Svizzera, Germania, Lussemburgo, Regno Unito, Usa) questa volta, bensì nelle ex colonie di vecchia (Brasile, dove i Portoghesi sono ormai 700 mila), e più recente indipendenza (Angola, dove sono più di 100 mila, Mozambico, Capo Verde) o addirittura a Macao, dove sono 120 mila -nonostante questa ex colonia sia stata restituita alla Cina. Ma i nuovi emigranti non sono come i vecchi. Questi sono specializzati e altamente qualificati: avvocati, farmacisti, commercialisti, ingegneri, architetti e manager che, in virtù della lingua, dei sistemi legali e commerciali affini, se non coincidenti, vanno a occupare posti di responsabilità e prestigio in luoghi come l’Angola, dove queste figure professionali sono assenti, insufficienti o ancora in formazione, creando risentimento nei loro omologhi (o aspiranti tali) locali che si vedono bypassare sia dalla ricchezza di provenienza petrolifera sia dalle nuove professioni collegate alla stessa. Una classe media già formata, agguerrita e affamata che si sposta in massa e ne soppianta un’altra in delicato sviluppo embrionale. Dall’Angola, paese africano a democrazia limitata e a povertà diffusa governato con pugno di ferro da José Eduardo Dos Santos, ingegnere petrolifero formatosi a Baku ai tempi dell’Urss, erede di Agostinho Nieto alla guida del movimento di liberazione Mpla prima e quindi dell’Angola da 34 anni, arrivano anche investimenti e risorse pubbliche e private in grandi quantità a dare fiato e linfa vitale all’esangue economia portoghese che, nella situazione in cui si trova, non può certo stare a spaccare il capello in due sulla provenienza degli aiuti. Il Portogallo diventa così terra di (re)conquista da parte della nuova e rampante classe dirigente delle vecchie colonie. La figlia di Dos Santos, nata essa stessa a Baku da madre russa e istruita a Londra in ingegneria elettronica, che gestisce la cassaforte di famiglia ed è considerata dalla rivista americana "Forbes” la prima donna miliardaria africana con un patrimonio personale stimato in un miliardo di dollari, investe sia in Angola che in Portogallo in banche, finanza, tv e telecomunicazioni. Dai tre milioni di portoghesi in fuga in ogni parte del mondo, a fronte dei dieci milioni che restano ancora stabilmente in Patria, arrivano le rimesse degli emigranti come negli anni Sessanta e Settanta e la solita voglia di tornare a corrente alternata dettata dalla inevitabile saudade. Difficile, allo stato attuale delle cose, stimare quanti di questi torneranno in Portogallo e quando, se mai.
Giovanni Maragno