Contrariamente a quanto avviene con le altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica i collegamenti fra la Moldova e l’Italia sono comodi e veloci. Non c’è bisogno di scali intermedi in qualche hub dell’Europa centrale: ci sono voli diretti per Chisinau da Milano, Roma e Verona. Pochi sanno che il nostro paese ospita la più grande comunità moldava all’estero. Te ne accorgi la domenica pomeriggio quando nel giorno di riposo catturi qualche parola di chiara origine latina fra le badanti che vanno a passeggio nei giardini semi-deserti dei nostri centri storici oppure in campagna fra i braccianti durante la raccolta di meloni, angurie e pomodori. Sono 132.000 i cittadini moldavi registrati ufficialmente in Italia, ma si presume che fra stagionali, ricongiungimenti familiari, e immigrati illegali il numero reale sfiori i 300.000. Le statistiche indicano, da qualche anno, la Moldova come il paese più povero del vecchio continente. Un quarto della popolazione, un milione di persone circa, vive fuori patria contribuendo in maniera decisiva con le proprie rimesse alla sopravvivenza del paese.

C’è ressa all’aeroporto Catullo. Il volo per Chisinau è esaurito in ogni ordine di posti; in Moldova ricorre la festa dei morti e chi può approfitta dell’occasione per far ritorno al paese di origine. Vedendomi con solo uno zainetto sulle spalle, la signora bionda che mi precede al check-in mi supplica di registrare a mio carico uno dei tanti bagagli che vorrebbe portare con sé. Accetto, ovviamente, di buon grado. Risiede da qualche tempo in provincia di Verona, dove svolge le mansioni di badante. In patria l’aspetta la famiglia, che vive a pochi chilometri dalla capitale. In valigia, confessa, ha messo anche pezzi di carne congelata. “Le condizioni di vita” spiega in un buon italiano “sono ancora estremamente difficili per chi abita fuori città”. Aliona, la signora che siede in aereo al mio fianco, lavora, invece, come infermiera con la sorella, seduta poche file dietro, nella casa di riposo di Valeggio sul Mincio. Le ore di volo sono per me tempo di lavoro prezioso da sfruttare per leggere documenti e approfondire le questioni che dovrò affrontare all’arrivo. La Moldova è l’unico paese dello spazio post sovietico, dove il partito comunista è ritornato al potere, nel 2005, per via democratica. Lo scorso 5 aprile i moldavi sono andati alle urne per rinnovare il parlamento confermando i comunisti al governo. “Sono rimasti solo gli anziani nel mio paese” dice Aliona “non conoscono quello che succede altrove e sono ancora legati al vecchio regime” spiega. I giovani, però, non la pensano allo stesso modo. La televisione è una formidabile finestra sul mondo che in un paese povero come la Moldova accresce le frustrazioni di chi non vede un futuro degno di tal nome in patria. La stampa internazionale l’ha definita la “Twitter revolution” riferendosi all’omonimo sito web di relazioni sociali. E’ stato, infatti, grazie ad un appello comparso su Twitter, Facebook e a centinaia di sms rilanciati in pochi minuti come un’interminabile catena di Sant’Antonio che, all’indomani della consultazione elettorale, decine di migliaia di giovani, per lo più studenti, si sono mobilitati nel centro di Chisinau per denunciare presunte frodi. I partiti di opposizione, spiazzati in un primo momento dalla manifestazione spontanea, si sono successivamente accodati ai cortei riprendendo le accuse. Alcuni dimostranti hanno, poi, fatto irruzione nel parlamento e nel palazzo presidenziale saccheggiando gli uffici, rubando computer e appiccando fuoco ad archivi e mobilia. La reazione della polizia non si è fatta attendere ed è stata pesante, spietata, brutale. Gli ospedali della capitale hanno avuto il loro da fare per soccorrere e curare i feriti e più di trecento persone sono state arrestate dalle forze di sicurezza e trasferite, in seguito, nei commissariati e nelle prigioni del paese. Le immagini degli scontri e delle violenze sono subito arrivate tra i banchi del parlamento europeo che, prima di esprimersi sull’accaduto, ha deciso di inviare in Moldova una commissione d’inchiesta.

Sui pennoni degli edifici occupati i manifestanti avevano issato le bandiere di Romania e Unione Europea. E’ all’Europa e all’ex madre patria che affidano le proprie speranze le giovani generazioni moldave. Strappata nel 1940 da Stalin alla Romania, con l’aggiunta di una striscia di terra russofona oltre il fiume Dniestr che si è adesso auto-proclamata indipendente dando vita alla Repubblica di Transnistria, la Moldova era una delle quindici repubbliche che formavano l’Unione Sovietica. Il richiamo di Bucarest è sempre molto forte per ragioni storiche, culturali e linguistiche. “E’ una situazione simile alla divisione fra Germania Ovest e Germania Est” spiega Marian Marinescu, un eurodeputato rumeno che fa parte della delegazione. L’attuale governo moldavo, però, non ne vuole sapere di ristabilire gli antichi legami con la Romania e preferisce guardare alla Russia trasformatasi, oggi, nel garante dell’indipendenza della piccola repubblica. Non a caso il presidente moldavo Voronin ha accusato il governo di Bucarest di avere ispirato la rivolta chiudendo le frontiere con il vicino, espellendone l’ambasciatore e reintroducendo l’obbligo del visto per i cittadini rumeni. E’ stata la diplomazia europea, però, che durante la concitazione di quei momenti è riuscita a placare gli animi ed oggi cerca di ritessere il dialogo fra forze di governo ed opposizione. Non va dimenticato, infatti, che, oltre alle rimesse degli emigrati che costituiscono più del 25% del prodotto interno lordo, dall’Unione Europea arriva anche un sostanzioso pacchetto di aiuti, fondamentali per un paese dall’economia disastrata.
I lunghi e decrepiti condomini a cella d’ape che costeggiano i grandi viali che dall’aeroporto portano in città non rendono giustizia all’immagine di Chisinau. Irrilevante dal punto di vista monumentale, la capitale con i suoi edifici bassi è distesa, adagiata, quasi assopita tra il verde dei boulevard alberati e dei parchi pubblici. Anche se la vita nelle campagne è davvero grama, quella in città, sembra scorrere paciosa, senza troppi sussulti. Il mercato principale, ad un centinaio di metri dal mio hotel, brulica di massaie che passano in rassegna la merce di una miriade di contadini giunta alle prime ore dell’alba. Niente di originale ai miei occhi ad eccezione di grandi quantità di prugne secche e funghi che costituiscono parte integrante della dieta locale. Anche la vicina stazione degli autobus è affollata di pendolari con i chioschi di paccottiglia che suonano musica ad altissimo volume.

Alexandru, 22 anni, si trovava di fronte alla facoltà di agraria il giorno degli scontri quando è stato prelevato da alcuni poliziotti in borghese che sostenevano di averlo visto lanciare pietre. Con il pretesto di un controllo dei documenti l’hanno portato al commissariato più vicino, dove è stato pestato e rinchiuso per cinque giorni con altre quattro persone in una cella di pochi metri quadrati senza alcuna possibilità di incontrare un avvocato. Prima del rilascio è stato costretto a firmare una confessione senza poter leggere il testo del documento. Gheorghe, 47 anni, era partito quel giorno dal suo villaggio per partecipare alla manifestazione. Spinto dalla folla si era trovato in prima fila e quando alcuni dimostranti hanno cominciato a scagliare sassi ha cercato di farli smettere. Preso dai poliziotti è stato trattenuto per 42 ore dopo essere stato brutalmente picchiato con bottiglie d’acqua di plastica. Mentre racconta quanto accaduto, mostra ecchimosi e lesioni su gambe e torace. Eugen, 21 anni, è stato arrestato a casa dopo aver partecipato alla manifestazione filmando ed intervistando alcuni conoscenti. In camera di sicurezza per sette giorni è stato a lungo picchiato riportando danni a reni e prostata. Ora ha bisogno di un periodo di riabilitazione. Ha dovuto chiudere l’attività di assistenza auto sotto minaccia della polizia e oggi è senza lavoro. Sergiu, 24 anni, stava dimostrando pacificamente quando alcuni funzionari l’hanno fatto salire su un’automobile, portato in una stazione di polizia e colpito per un’ora e mezza allo stomaco e alla testa. L’avvocato d’ufficio ha firmato la confessione in sua vece. Ora è a piede libero con il divieto di lasciare il paese. E’ in una sala dell’hotel che ascoltiamo alcune delle vittime della dura repressione poliziesca raccontare storie di ordinaria follia. I rappresentanti delle organizzazioni per i diritti dell’uomo che le accompagnano danno un quadro fosco della situazione. “C’è il rischio che da uno stato autoritario si passi a una vera dittatura” esordisce uno di loro. “Voronin ha accusato i dimostranti di avere organizzato un colpo di stato”, continua, “ma a lanciare pietre provocando gli scontri sono stati agenti in borghese che avevano l’ordine di fare precipitare la situazione per giustificare l’intervento massiccio delle forze dell’ordine”. La stessa versione viene fornita a più riprese da altri testimoni oculari. E’ un dato di fatto che da quel giorno è partita una campagna di intimidazione da parte delle autorità che tramite pressanti richieste burocratiche e controlli fiscali mira ad imbavagliare la società civile. Maggioranza ed opposizione si rimpallano accuse di cospirazione in un vortice tempestoso che scuote le fondamenta della labile democrazia moldava. Sui media, però, passa solo la versione del governo che controlla le principali fonti di informazione eccetto internet, comunque oscurata nei giorni successivi alla rivolta.
Secondo testimonianze attendibili è stato nel penitenziario numero 13 che si sono verificati gli episodi più cruenti. Sono ancora nove i manifestanti rinchiusi in prigione. Avevamo preannunciato per tempo alle autorità l’intenzione di rendere visita ad alcuni di loro senza ottenere risposta. Di fronte alla determinazione dei deputati europei, però, le porte del carcere si sono come d’incanto schiuse. Anatol Matasaru, 38 anni, è forse il caso più drammatico. Interrompe più volte il discorso tra i singhiozzi mentre racconta la sua odissea ammettendo di avere partecipato ad alcuni tafferugli. Una volta in guardina è stato sottoposto a ripetuti pestaggi e fra questi il “tunnel della morte” che consiste nel passare in mezzo a due file di agenti che colpiscono il malcapitato selvaggiamente. Ripercorre gli avvenimenti ancora sotto shock. Di quei momenti ricorda di essere, ad un tratto, caduto a terra privo di sensi. Ha ancora forti dolori al capo con possibilità ridotte di accedere alle cure mediche. “Nessuno può essere accusato di violazioni ed abusi finché la giustizia non emette il verdetto” afferma deciso, però, l’Ispettore Capo di Polizia nel respingere le accuse. “Tutto è stato filmato, la mia opinione è che sono stati i miei uomini ad essere attaccati dai manifestanti” rilancia con forza. Di tutt’altro parere sembra essere il difensore civico che incontriamo il giorno seguente. “In almeno 10 casi sui 41 controllati abbiamo verificato episodi di maltrattamento e violenza ai danni dei detenuti riscontrando lesioni fisiche; inoltre non sono state rispettate le garanzie giuridiche degli imputati” conclude.

I partiti di opposizione scalpitano nelle piazze chiedendo l’invalidamento delle elezioni. La missione di osservazione internazionale ha, però, certificato la regolarità del voto che non può essere rimesso in discussione. Il riconteggio dei voti, ordinato dalle autorità per rispondere alla pressione europea, ha dato risultati pressoché coincidenti. Sono stati 4951 i cittadini moldavi che hanno votato in Italia nei consolati di Roma e Bologna. Pochi, troppo pochi e pochissimi di loro hanno votato a favore del governo. Non era nell’interesse del Partito Comunista facilitare il voto all’estero nonostante le richieste del Consiglio d’Europa e, probabilmente, agli espatriati poco importa delle vicende politiche domestiche: il futuro, per loro, è ormai altrove.
Mamaliga e placinte sono due nuove parole del mio manuale di sopravvivenza vegetariana. Polenta e sfoglia ripiena di zucca, patate o spinaci sono piatti tradizionali che si trovano ovunque. Il vino è di ottima qualità e costituisce uno dei pochi prodotti pregiati del paese, fonte di reddito sicura per gli agricoltori moldavi che detengono il 38% dell’export totale. La mano d’opera, comunque, intesa come emigrazione, continua ad essere il genere più esportato da queste parti.

La Moldova è una delle sei repubbliche dell’ex Unione Sovietica che fanno da cuscinetto fra Unione Europea e Russia. Questi paesi sono tutti passati attraverso regimi autoritari, rivoluzioni fallite o bruschi cambiamenti di potere in un processo di transizione che non trova ancora sbocchi.
L’Unione Europea, dopo l’allargamento ad oriente, si è sforzata di portare stabilità ai suoi confini cercando di integrare i sei nel proprio spazio economico anche se per adesso la prospettiva di una graduale integrazione politica non è all’ordine del giorno. Mosca ha interpretato l’iniziativa europea come un’invasione di campo, un’intrusione indebita nel cortile di casa. Da qui sono nati malintesi, scontri diplomatici e sgarbi reciproci. Bielorussia, Moldova, Ucraina, Armenia, Azerbaigian e Georgia si rivolgono ora all’uno ora all’altro dei grandi vicini, incerti sulla strada da seguire. Democrazia e diritti umani sono valori inalienabili del corredo europeo ma non di quello russo. I giovani moldavi sembrano averlo ben presente. Svolte autoritarie si alternano a squarci di libertà.
Chisinau si trova ad un bivio fra Mosca e Bruxelles.