Ho conosciuto Nicola a Bocca di Magra quando ero bambina. I miei genitori erano amici dei Levi e Bocca di Magra era il nostro luogo di villeggiatura comune. Cominciai ad avere delle relazioni più personali con Nicola un’estate in cui io ero ferita a un piede e lui era convalescente da un attacco cardiaco. Privati della spiaggia in cui tutti passavano più di tre ore al giorno, prendemmo l’abitudine di incontrarci ogni mattina. Nicola leggeva il Gorgia di Platone, e siccome io avevo cominciato a fare greco, leggemmo questo testo insieme, in due lingue. Era il 1964, credo che avessi 17 anni. Noi riprendemmo la nostra lettura l’anno dopo, esplorando altri testi fra cui un poco di teatro, ma io ricordo soprattutto le nostre discussioni su Platone. Per un periodo di tempo noi rimanemmo in relazione per lettera, andai a trovarlo due volte a Roma. Studente in lettere classiche, arrivai alla Sorbona nel 1966. A quel tempo era in piena ebollizione, i classici contro i moderni, Barthes contro Picard. Io scoprivo la linguistica e lo strutturalismo, a fianco di studenti che erano tutti marxisti. Ero stata educata in un ambiente di intellettuali di sinistra tutti antistalinisti e fu quindi naturale impegnarmi nelle lotte anticoloniali, mentre invece il mio impegno insieme a dei filocinesi andava contro la mia eredità culturale. Evitai di parlare di marxismo con Nicola perché non era tutto chiaro in me, ma ricordo d’aver tentato di spiegargli perché, o piuttosto come, potevo richiamarmi alla rivoluzione culturale. Ci volle tutta la generosità e l’amicizia di Nicola per mantenere aperto il dialogo fra noi nel momento in cui io rimettevo in questione la mia eredità intellettuale di cui la mia relazione con lui faceva parte. Non mi ricordo di aver corrisposto con Nicola sul maggio 68: dopo l’esaltazione del mese di maggio, io non sapevo più dov’ero. All’improvviso, non si trattava più solamente di dibattere delle idee, di denunciare l’ingiustizia, il cambiamento -la rivoluzione?- diveniva possibile. Non ero più in grado di dirgli dove fossi, non avevo abbastanza distanza dalle cose. Alla mia memoria la nostra corrispondenza si interruppe - ma è una cosa che dovrei verificare.
Vi invio una foto presa a Roma, senza dubbio nella primavera del 1965 - unicamente per il piacere di ricordami di Nicola!
Anne Coppel,
Parigi, aprile 2009

***
Princeton, 3 dicembre 1966

Cara Anne, non voglio tardare a risponderti perché la tua lettera mi ha molto colpito. Mi dispiace molto averti dato l’impressione di essere “non gentile” e “ingiusto” con te. Sei l’ultima persona alla quale avrei voluto dare un’impressione di questo tipo. Una cosa è vera, ma non ti riguarda affatto, è che sono diventato molto impaziente rispetto a coloro che parlano di politica per il piacere (molto equivoco secondo me) di lasciare libero corso alla loro indignazione virtuosa.
Penso a Mario, naturalmente. Ma è lungi dall’essere l’unico. Quasi all’opposto, trovo per esempio Jeannot e i suoi amici che “giocano alla politica” come si potrebbe giocare agli scacchi o praticare uno sport (intellettualmente li capisco, mi divertono, penso che dietro i loro giochi ci sia una passione sincera quanto inappagata) ma alla fine, non è serio.
Trovo che ci siano oggi due modi di pensare e di parlare di politica. La prima è quella dei “realisti” e degli “specialisti”: quelli che hanno le “mani in pasta”, o quelli che parlano dal punto di vista di quelli che le hanno (le “mani in pasta”). Per questi, discutere di politica, significa rispondere alla domanda: cosa fareste se foste al posto di quelli che governano? (ci sarebbe molto da dire sul carattere assai pleonastico di una tale domanda). Il secondo modo è quello di coloro che considerano il mondo della politica (delle idee politiche correnti, delle pratiche e dei metodi attuali) radicalmente sterile e corrotto per ciò che riguarda le aspirazioni autentiche dell’essere umano e assumono un atteggiamento che, senza essere di indifferenza, è 1) scettico riguardo all’immediato, 2) radicalmente speculativo, intellettuale e persino filosofico rispetto alle idee, ideologie, ai metodi e alle pratiche della politica “come dovrebbe essere”.
Hai già capito a quale delle due categorie io appartengo o mi sforzo di appartenere.
Se ti prendi la pena di leggere (cosa che probabilmente hai già fatto) la VII lettera di Platone, capirai forse quali sono le ragioni fondamentali (o l’ordine di ragioni) di un tale atteggiamento.
N ...[continua]

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