La violenza è insita nell’animo umano perché inerente al mondo e al posto dell’uomo nel mondo. Si potrebbe dire che l’origine della violenza nell’uomo è la rivolta istintiva contro il fatto di trovarsi a essere rinchiuso in una condizione non scelta, una creatura che patisce prima di tutto -prima di cominciare a soffrire per questo o quel male- di tale irrimediabile restrizione, e quindi è sempre in uno stato di penuria, di privazione e d’oppressione. Se fosse altrimenti, se cioè il fatto della violenza nel mondo umano fosse un fatto di natura animale, gli eccessi mostruosi cui può giungere nell’uomo la violenza non si spiegherebbero. La ferocia di un Hitler o di uno Stalin non ha niente che fare con la soddisfazione di un istinto bestiale: è propriamente umana, dovuta al proposito maligno di eccedere a ogni costo i limiti della comune umanità.
In questo senso, l’impulso di violenza non è più forte nell’individuo privilegiato per ricchezza o potere che nel povero e oppresso. L’uomo è violento perché violenta è (o tale gli appare) la sua condizione iniziale, la quale non cambia mai, dato che non c’è nessun individuo che la sorte, prima ancora che gli uomini, non abbia privato e non privi ogni momento di tutto ciò che non ha.
In un certo senso, la prima violenza è quella fatta da Prometeo alla volontà di Zeus per venire in soccorso agli uomini bisognosi e “vaganti per la gran selva della terra fresca”. Per procurarsi il necessario, l’uomo deve strapparlo alla natura, violare il suo ordine, devastare non solo il regno vegetale e quello animale, ma la società dei propri simili. E il necessario, per l’uomo, non finisce mai:
“Non lasciare alla natura più di quello che alla natura è necessario e la vita dell’uomo varrà quanto quella di una bestia...” dice Re Lear.
La violenza umana è una violenza mai sazia e mai finita, come ben sappiamo noi che, avendo stabilito (o quasi) il regno dell’uomo sulla natura, abbiamo a tal punto sconvolto l’ordine della natura medesima da mettere perciò spesso in pericolo la sovranità di cui ci vantiamo. Catastrofe atomica, inquinamento dell’atmosfera, interventi biochimici o chirurgici sulle fonti stesse della vita o sulle operazioni della mente, cominciamo a sospettare di aver toccato limiti oltre i quali c’è il caos; ma non per questo ci fermiamo.
E tuttavia, si deve riconoscere in questo l’opera della necessità. Non giova a nulla dire che la storia avrebbe potuto seguire una via diversa se non fosse stato, poniamo, per lo sfrenamento di violenza guerresca che seguì la rivoluzione industriale, con Napoleone e le conseguenze dell’avventura napoleonica, le quali vanno certamente fino a Hitler, e non sembrano ancora esaurite. La serie dei casi che ci ha condotto al punto in cui siamo anziché a un termine più felice, indica appunto una necessità alla quale non possiamo sfuggire. Giacché è facile pensare a un’eventualità più propizia di quella che ci è toccata; ma il fatto è che le eventualità, nel corso degli eventi, sono a ogni istante innumerevoli, e comprendono il peggio come il meglio. La scelta non dipende da noi, anche se siamo noi a fare ciò che facciamo: ossia, tutti insieme, la nostra propria storia. E neppure la divinità è responsabile, dice Platone.
La violenza, dunque, è intrinseca alla natura delle cose e dell’uomo. Ma la stoltezza degli esaltatori della violenza, quelli che oggi dicono che “senza violenza non si ottiene nulla” (eco della frase famosa di Marx, secondo cui “la violenza è la levatrice della storia”) consiste nel fatto che essi erigono a principio di ragione quello che è un elemento costitutivo del destino umano, e come tale sfugge a ogni ragione. Ora, fare di ciò che sfugge a ogni ragione un principio sia di ragione che d’azione, prima di essere una contraddizione logica, è una trasgressione disastrosa.
Non vedono, costoro, che dalla violenza cui l’uomo cede, alla quale può trovarsi costretto, o alla quale addirittura si affida come a un principio creatore, non deriva soltanto per lui la possibilità di sopravvivere, esistere, organizzare, ma ha origine al tempo stesso la nemesi che colpisce ogni impresa umana, e più violentemente le più violente. Ed è soltanto dalla coscienza di questa nemesi -ossia della propria situazione essenzialmente irrisolubile, perche indipendente dalla volontà umana- che può nascere nell’individuo quello che si chiama “senso del limite” e della misura: saggezza.
E la saggezza non consiste soltanto nell’esse ...[continua]

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