Siamo finiti in un pasticcio, un pantano in cui ogni nuovo passo rende immensamente più difficile districarsene. Vorrei proprio vedere cosa ne caveremo e cosa porterà alla nostra nazione.
Mark Twain, 1899

Mark Twain si riferiva all’avventura imperialista nelle Filippine, ma una reprimenda tanto sinistra si applica altrettanto bene, più di un secolo dopo, al “pantano” del signor Bush in Iraq.
Nell’ultimo mese, tanto gravido di avvenimenti, ci sono stati segnali di una netta inversione di rotta nel sostegno americano alla follia irachena, ed in modo significativo proprio nel partito del presidente e nelle stesse fila degli ideologi “neocon” che avevano entusiasticamente supportato la guerra nei primissimi e trionfali giorni della “missione compiuta”, ormai tanto tempo fa. Ma se davvero l’amministrazione abbia recepito questi segnali, e sia pronta a spingersi oltre i semplici aggiustamenti estetici e retorici della policy, resta una domanda senza risposta.
I precedenti non incoraggiano di certo.

Le elezioni di medio termine del 7 novembre, che hanno fatto registrare una storica affermazione dei Democratici a tutti i livelli e in tutto il Paese, riguardavano sicuramente controversie locali, personalità individuali, scelte di tipo economico e il rifiuto della “cultura della corruzione” di Washington. Ma, a dispetto degli sforzi di Karl Rove nel trincerarsi dietro gli argomenti chiave “guns, gays and God”, e nonostante i discorsi del presidente volti a stigmatizzare gli avversari come “troppo soft col terrorismo” (se non peggio), il voto ha rappresentato prima di tutto il ripudio della guerra in Iraq; il rifiuto della disciplina da partito unico che ha condotto alla guerra, ed il risveglio dal clima di terrore post-11 settembre, così ben manipolato dallo staff di Bush per gran parte del suo mandato.
Le vittorie democratiche di maggiore interesse sono state sicuramente la conquista degli ex stati “rossi”, pro-Bush, come l’Indiana ed il Missouri, l’emergere della figura di Jon Tester, contadino populista del Montana, e la caduta di Rick Santorum (dalla Pennsylvania) e Gorge Allen (dalla Virginia), due senatori legati alla destra evangelica, ormai costretti a dichiarare decadute le loro aspirazioni presidenziali.
In particolare Allen, autoproclamatosi Ronald Reagan dell’ultim’ora, ha commesso un clamoroso suicidio politico con i suoi commenti razzisti, e per poco non è uscito sconfitto dallo scontro con l’antipolitico James Webb (già segretario della Marina sotto Reagan negli anni ’80), fuoriuscito dal Partito Repubblicano per condurre una spudorata campagna contro l’invasione e l’occupazione dell’Iraq.
Successivamente, Webb ha sollevato un polverone al ricevimento per il nuovo Congresso, quando ha voltato le spalle alle opportunistiche aperture di Bush, incalzandolo sulla sua strategia di uscita dall’Iraq.
Sarà molto interessante verificare se la leadership democratica, che include Nancy Pelosi (dalla California), prima presidentessa della camera dei deputati, riuscirà a mostrare una simile determinazione nel confrontare il Presidente sulla sua sanguinaria politica estera.
Bush ha risposto a questo ripudio con effimere aperture “bipartisan”: già nella settimana successiva è però apparso evidente come il suo approccio nei riguardi delle nuove realtà politiche con cui si trova ora a dover negoziare, sia di negazione, ed in ultima analisi pare che stia tentando di vanificare i risultati delle elezioni.
La tanto attesa destituzione dell’“architetto di guerra” Donald Rumsfeld (che avevo già paragonato, nel 2003, all’artefice della guerra in Vietnam Robert McNamara, per la “sicumera tecnocratica”) non ha avviato alcuna seria riconsiderazione strategica nei circoli interni della Casa Bianca - nonostante il memorandum in cui Rumsfeld, prima di lasciare, affermava che la guerra “non stava funzionando”, le schiette dichiarazioni fatte al Congresso dal suo successore Gates, che ha dichiarato che “non stiamo vincendo in Iraq”, e che la carneficina di stampo settario rischia di tramutarsi in una “conflagrazione regionale”.
Ancora più allarmante è però l’evidente sprezzo del Presidente nei confronti delle conclusioni dell’ Iraq Study Group, guidato da James Baker, amico di Bush padre, ed ex segretario di Stato, che descrive la situazione in Iraq “grave, ed in via di peggioramento” e che raccomanda una riduzione delle truppe combattenti e l’attivazione di canali diplomatici con Iran e Siria, avversari regionali, nel tentativo di ricomporre una situazione ormai caotica.
Dopo averle respinte per mesi, fin dopo le elezioni, il Presidente Bush ha dovuto accogliere le mozioni sull’adozione del rapporto il 6 dicembre -lo stesso giorno in cui undici soldati americani hanno perso la vita in Iraq- ma, fin da allora, ha dato ben poche indicazioni di voler abbandonare la convinzione che il “successo” -per quanto continuamente ridefinito- fosse ancora possibile.
Trovandosi ad Hanoi per un summit sull’economia regionale, ha bizzarramente dichiarato ai suoi ospiti che la “lezione” della guerra in Vietnam è che “avremo successo, se non ci ritireremo”. Dopo un breve e atteso incontro in un hotel di lusso ad Amman, in Giordania (scelto probabilmente per la sua maggiore sicurezza rispetto alla Zona Verde di Baghdad) un Bush palesemente stizzito e sprezzante ha dichiarato che non ci sarà alcuna facile via d’uscita dall’Iraq, e successivamente ha ribadito che il Primo Ministro Maliki è “il tipo giusto” per la guida del Paese, nonostante l’evidente inettitudine dimostrata nel controllare il livello di violenza raggiunto in quella che molti media americani, con un certo ritardo, chiamano ormai “guerra civile”.
Ancora ieri, il Presidente ha annunciato che terrà per sé la sua “nuova strategia per l’Iraq” fino al nuovo anno, dimostrando una spaventosa noncuranza della gravità della situazione in un paese già in fiamme. L’editorialista del New York Times Frank Rich si è recentemente domandato se il presidente Bush, oramai isolato e disorientato rispetto alle critiche esterne e ai dissapori interni tra Cheney, Rice e gli altri membri dell’amministrazione sulla “via da percorrere”, non stesse già “parlando con i muri”, come Nixon nei suoi ultimi giorni.
Nelle prime fasi dell’invasione dell’Iraq ho cercato, su queste pagine (Una Città, n. 111), di comunicare il senso di preoccupazione avvertito da milioni di cittadini, negli Stati Uniti e nel mondo intero, per la folle avventura irachena che sembrava poter degenerare in un brutto “sequel” della guerra in Vietnam, cosa che poi si è verificata.
“Addentrarsi in questa regione già instabile a suon di cannonate all’inizio può essere sembrata una cosa buona, e aver soddisfatto quel senso di destino mitico che qualcuno porta in sé” ho scritto nel marzo 2003, “ma le conseguenze sul lungo periodo saranno probabilmente tanto dolorose quanto imprevedibili”.
La situazione attuale richiama alla mente quei giorni del 1968 in cui un altro presidente texano, Lyndon Johnson, ammise la portata dell’offensiva del Tet e accettò le conclusioni del gruppo degli anziani “saggi” di Washington, riconoscendo che i suoi sogni di “vittoria” in Vietnam non si sarebbero potuti realizzare ad un costo accettabile.
Nel momento in cui un nuovo Congresso entra in carica, capiremo se la democrazia può riuscire a minimizzare il danno fatto; se, cioè, dopo che ogni alternativa credibile è svanita, e dopo che l’ottimismo e l’ “innocenza” americani sono stati messi alla prova oltre ogni limite, questo governo può affrontare l’intera portata del disastro cui ci ha condotto Bush, ennesimo “pantano in cui ogni nuovo passo rende immensamente più difficile districarsene”.
Detroit, dicembre 2006

*Gregory Sumner è professore di Storia Americana presso l’Università di Detroit.