“Nella vita si può anche morire” diceva Miguel Manara. E difatti succede. Eppure -ma perché?- della morte non se ne parla quasi mai. E siccome inevitabilmente arriva, ci si trova immancabilmente impreparati. Naturalmente per quanto ci ragioniamo su, rappresenta sempre un appuntamento importuno, che non potremo mai affrontare preparati. Si muore una volta sola e, si sa, una “volta sola è mai”. Disporsi, farsi forza, cercare di capire? Ma è proprio questo il terribile della morte: che proprio il soggetto che si dispone, si rafforza e cerca di capire è proprio colui che muore; si infiacchisce, si ammala, si obnubila, cambia. Muore. Non muore un pezzo di noi, non “si cambiano i cavalli alla stazione” ironizzava Nietzsche. No, siamo proprio noi, quel che siamo, che moriamo. Per questo la morte è l’Avversario, la potenza del nulla. Il corpo del peccato, suggerisce la teologia cristiana.
Viene però a questo punto da chiedersi se, pur nella nostra impotenza radicale, proprio non ci sia nulla da fare, se non subire passivamente la morte e il morire. Solo la tecnicizzazione medica è la risposta dell’uomo? Dopo tutto illustrissimi storici della “morte in Occidente” hanno messo bene in luce che questi nostri atteggiamenti di negazione, di censura della morte sono recenti: solo di qualche secolo. Non sempre è stato così. Non sempre si è affrontato la morte semplicemente non parlandone mai. In Oriente per esempio si muore diversamente: “solo un soffio ci separa dalla verità” e questo sospiro è la Morte. Come si è detto per il dolore, anche della morte si può pensare che non esista in sé, che non sia un fenomeno sempre identico e universale, ma che subisca piuttosto le variazioni delle successive elaborazioni culturali; miti, riti, psicologie individuali e culture. Ogni morte è un evento singolare. E il nostro modo di vedere la morte è stato quello di non vedere. Censura. Proprio nel secolo della mega-morte, dei grandi stermini collettivi.
Ma forse alcune di queste tragedie hanno proprio una loro radice nel volere interpretare tutto con gli occhi della morte: l’uomo stesso come un essere-per la-morte. Qualcuno lo ha sostenuto: queste filosofie hanno anticipato il nazismo. Non più la morte evento dell’uomo, ma al contrario l’uomo pensato a partire dalla morte. Ideologie. Tentazioni anche religiose. Non conviene invece mantenere fermo l’orrore per essa? Chi non ha paura e orrore della morte, corre anche il rischio di inferirla facilmente agli altri. “Voi occidentali avete paura di morire, noi no” ci dicono i fondamentalisti islamici. “Solo il filo della spada ci separa dal paradiso” si gridava una volta all’inizio della guerra santa; e ancora oggi, sui nostri giornali si dà notizia della “marcia suicida dei Palestinesi di Hamas verso i campi minati del Libano meridionale”. Ma si può, per il paradiso o per la terra, morire con tanta facilità? Preferisco chi davanti alla propria fine “cominciò a sentire paura e angoscia” (Mc. 14. 33.). E’ più grande perché più umano, con la consapevolezza non esaltata e con tutte le risorse della propria umanità. Chi può consolare della morte? Gli uomini prima di tutto; gli “effimeri”, come li chiama la tragedia greca, che la devono patire sono anche capaci di lenirla. La vicinanza, la comprensione di un altro può sostenere quando si è alla fine. L’angoscia è la solitudine, la grazia è il contatto. Toccare chi muore. Se è vero e importante che la morte ci trovi vivi, come insegnava Concetto Marchesi, è altrettanto vero però che saranno proprio gli altri che standoci accanto, con cura e compassione, ci richiameranno sempre al rapporto vivo. Ma si muore così oggi nei nostri ospedali? O negli improvvisi incidenti delle nostre strade? Ho visto morire ed ho imparato due cose: che conta molto star vicino al morente, ma anche che questi da parte sua sappia “consegnarsi”, abbandonarsi agli altri; a chi almeno gli vuol bene. Consegnarsi contiene una tale potenza di consolazione, anche laica, che cela tutto il mistero dell’uomo, l’essere-per-l’amore. Consegnarsi è l’arte di amare che si impara lungo tutta la vita. Il santo bevitore di J. Roth pregava “Conceda Dio a tutti noi, a voi bevitori, una morte così lieve e bella”.
Non è tacendo con la pura tecnicizzazione come abbiamo fatto nella cultura moderna, e nemmeno negandola nell’eroismo di una fede (non solo islamica) che potremmo affrontare umanamente la morte; è più a misura di uomo, persino più sereno, viverla con il conforto della presenza degli altri, consegnandoci a chi si cura di noi. O con il segreto di un Amore più grande da cui “né morte, né vita ci può separare”.
Sergio Sala