Una caratteristica dei processi rivoluzionari è la loro feroce oggettività. Ciò che a un certo punto viene improvvisamente meno è infatti la capacità da parte dei soggetti sociali di governare la trasformazione. La storia, sulla cui ragionevolezza non si hanno dubbi solo in tempo di pace, lascia allora il posto alla Natura, al suo quasi mutismo e alla sua sublime indifferenza per le domande -domande di senso- dell’Islandese errante. Si chieda al giovane ex jugoslavo... Nessuno, egli risponderà in totale buona fede, vuole la guerra, noi e loro, dopotutto, potremmo vivere ancora insieme, come si è fatto per tanti anni, eppure adesso bisogna schierarsi, bisogna sparare. In Jugoslavia non sono i fanatici ad uccidere. I fanatici ucciderebbero comunque, semplicemente non ne hanno l’occasione. Ad uccidere o a fare da spettatori complici delle operazioni di “pulizia etnica” sono uomini comuni coinvolti in qualche cosa che non capiscono e che li travolge. Sparare in quella direzione, militare sotto quella bandiera, linciare quell’uomo diventa una questione -è terribile dirlo- di “orientamento”. Si tratta di stare a galla in un mare in tempesta, di assecondare il vento migliore, di evitare il peggio per il quale, si sa, non c’è mai fondo. Del resto, per chi volesse sottrarsi a questo automatismo insensato non resterebbe, in questo come in innumerevoli altri casi, che la via sovrana e fallimentare del naufragio volontario, forse l’unica via ancora “politica” aperta al Resistente. Lo sfascio dello Stato italiano, quello, ricordiamolo, “nato dalla Resistenza”, non si è ancora colorato di sangue, ma ha ormai un medesimo carattere di ineluttabilità. E’ non solo al nostro orizzonte, ma anche alle nostre spalle. Passivamente stiamo assistendo ad un processo rivoluzionario. Il riferimento alla passività non suoni qui come una denuncia moralistica, giacché impotenza, disorientamento, incapacità di calcolare l’effetto delle proprie azioni, sono, a dispetto dell’apparente paradosso, proprio i segni indiscutibili dell’attivo coinvolgimento di una umanità storica in un processo di trasformazione rivoluzionaria (un esempio: la critica della corruzione politica è giusta, ma tale critica porta al qualunquismo, allo sfascismo, alla razionalizzazione tecnocratica dello stato, del resto se si tace si è complici di una classe politica corrotta e questo tacere è qualunquista e sfascista e così via...). I particolarismi più sfrenati e tra loro contraddittori sono stati tutti ugualmente legittimati dal tracollo non dell’ideologia, ma dell’ipocrisia. Voglio dire che gli egoismi di ceti e corporazioni, per acquisire dignità, non hanno più motivo, come invece avevano fatto nel recente passato, di omaggiare indirettamente la virtù, di spacciarsi cioè davanti ad un immaginario tribunale della ragione universale per espressione di valori comunitari, per bisogni collettivi. Possono presentarsi nudi e crudi, tutti numeri e statistiche, senza timore di essere svergognati. La nudità del Re non fa più scandalo. Il Nord che si rifiuta di pagare per il Sud, il commerciante che non vuole pagare le tasse, il salariato che non si lascia abbindolare dalle chiacchiere sul superiore interesse nazionale ecc. In nome di che il loro specifico ed esclusivo interesse dovrebbe infatti essere sacrificato? Quel particolare, dopo la caduta del muro (= ipocrisia) è tutto. E siccome non è possibile conciliare questi interessi contraddittori, ciascuno vivrà la propria condizione di frustrazione come la riprova di una violenza subita e ingiustificata. Violenza che chiede vendetta. L’interesse veramente abnorme per le noiosissime problematiche legate alla riforma istituzionale ha forse qui la sua radice profonda. Se si percepisce ormai il proprio convivere con gli altri come una giungla in cui domina solo la legge della forza, alla razionalità politica non resta altro obiettivo che dare regole minime a questo conflitto per esorcizzare finché è possibile il sangue. I problemi si fanno solo formali quando tutti i contenuti (la nostra carta costituzionale ne era veramente ricca) sono evaporati. Ma le astuzie formali sono un argine precario. Producono inoltre la pericolosa illusione di governare ancora il conflitto, quando invece la loro stessa urgenza è espressione di una situazione già irrimediabilmente compromessa. Prima di spararsi gli Jugoslavi hanno discusso per anni sul dopo Tito, hanno elaborato complicatissimi sistemi istituzionali che dovevano garantire au ...[continua]

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