Il premio Alexander Langer 2003 è stato conferito all’Associazione “Gabriele Bortolozzo”. Alla cerimonia, presieduta da Gianni Tamino, erano presenti, tra gli altri, Anna Segre, che ha letto le motivazioni, Franco Rigosi, Michele Boato e Beatrice Bortolozzo, di cui riportiamo gli interventi.

Franco Rigosi
Medicina democratica veneta
Gabriele non era un grande oratore, non era un trascinatore di folle, né un politico di rottura, capace di finire sui giornali. Era uno di noi, un tranquillo padre di famiglia, un operaio chimico qualunque, ma aveva due caratteristiche che lo distinguevano. Dava un alto valore alla dignità dell’uomo, di ogni uomo, a cominciare da sé. Diceva spesso che non bisogna mai inchinarsi davanti a nessuno, perché siamo nati tutti nudi uguale e finiremo in polvere. E poi era un uomo che cercava la coerenza tra le proprie idee e la propria vita, oggi una rarità. Viveva giorno per giorno, lottando con tutte le armi nonviolente per convincere di questo gli altri.
Sarà ricordato per quella testardaggine che lo ha portato a raccogliere tutti i casi di tumore dei suoi compagni di lavoro, girando casa per casa, e che sono finiti in mano al p.m. Casson, un altro uomo testardo e pignolo. Denunce ce ne sono state tante, infatti, ma se poi non intervengono queste coincidenze fortunate, le cose non vanno avanti e finisce tutto nel cestino delle archiviazioni.
Ho conosciuto Gabriele all’inizio degli anni ‘80 alle riunioni del Movimento consumatori, un gruppo ristretto di folli che volevano diffondere l’agricoltura biologica, l’omeopatia, le medicine alternative. Lottavamo contro gli abusi commerciali e le furbizie delle aziende. Controllavamo le Usl, gli acquedotti, gli enti pubblici. Io per lavoro mi occupavo di tutela della salute sui luoghi di lavoro ed ero collegato a Medicina Democratica. Lui mi parlò del suo lavoro alla Montedison, delle sue denunce. Già nel ’75 si rifiutava di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie che facevano nell’infermeria di fabbrica. Diceva che i medici aziendali erano abituati a visitare i lavoratori, constatare la malattia e poi mandare a casa o spostare di reparto. Gabriele si era invece dichiarato disponibile a farsi visitare da strutture esterne, pubbliche, ma non ricevette mai risposta, né dalla direzione, né dal consiglio di fabbrica, né da strutture esterne. La sua obiezione di coscienza comunque fu ferma: non fu mai visitato dall’infermeria interna.
Nell’83 aveva denunciato un suo caporeparto con un esposto alla magistratura per uno scarico di prodotti tossici liquidi in laguna. Alla fine aveva vinto quella battaglia, non prima di essere stato spostato e declassato di mansione, per punizione. Dopo la sentenza lui mi disse, con una certa contentezza, che era stato spostato anche il suo capo, erano in due ad aver subito lo stesso danno. Però era lui, moralmente, ad aver vinto.
Era un uomo pacato, nonostante l’azienda lo considerasse un sovversivo da tenere sotto controllo. Lui aveva denunciato anche questo a polizia e carabinieri: veniva seguito dalla vigilanza aziendale. Non era ben visto neppure dalle forze sindacali, secondo la morale di Gabriele troppo abituate a mediare le situazioni.
L’hanno ignorato fino ad emarginarlo, nella fase calda del processo. Dentro la fabbrica aveva pochi amici ma erano in molti a stimarlo: gli passavano notizie, informazioni, si confidavano con lui. Lui, da parte sua, cercava di documentarsi con una curiosità culturale molto superiore ai suoi studi, che lo costringeva a occuparsi di epidemiologia, di tecnologie alternative, di nocività dei prodotti, di prevenzione.
E poi usava tutti i mezzi poveri di chi è isolato e solo. Quindi le lettere ai giornali, gli esposti alla magistratura, i comunicati stampa, i comunicati alle associazioni e agli enti pubblici, le informazioni ai pochi politici che sperava potessero dargli un mano. Lui valutava i politici al di là delle etichette, nella concretezza di quello che facevano ed erano disposti a rischiare nelle battaglie per l’ambiente e la salute nel lavoro.
Non si legava a nessuno, diceva che non ci si può legare troppo a un simbolo; è meglio restare fedeli a un ideale.
In fabbrica lo chiamavano “il francescano” perché d’estate andava in sandali anche sul posto di lavoro, malgrado i richiami e alcune sanzioni, perché gli operai dovevano calzare sempre scarpe antinfortunistiche. Lui rispondeva che sapeva quando serviva metterle, e quando no: in certi posti, ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!