Documento presentato alla Conferenza internazionale delle Nazioni Unite sulla società civile in appoggio al popolo palestinese, New York, 5 settembre 2003, con il titolo “Per una lotta contro l’apartheid dopo il fallimento della road map”.

Nessuno prende sul serio la road map. Se si cercasse in diversi ambienti, a partire dai funzionari del Dipartimento di Stato degli Usa e degli altri paesi del “quartetto”, passando attraverso i collaboratori di Ariel Sharon, fino agli attivisti internazionali e all’uomo della strada di Palestina e d’Israele, sarebbe molto difficile scovare anche una sola persona che creda nella road map. Fin dall’inizio essa è stata liquidata come l’ennesima iniziativa fallita, che si aggiunge alla lunga serie che va dai piani di Roger e Gunnar Jarring, fino a quelli di Tenet e Mitchell. Ma è così? A mio avviso la road map ha una valore che non è stato colto nemmeno dai suoi fautori.

Se la road map fallisce
l’apartheid sarà permanente

Guardata in modo realistico, dal punto di vista della ininterrotta campagna trentennale di Israele per creare irreversibili “dati di fatto sul terreno”, la road map rappresenta l’ultimo sussulto della soluzione dei due stati. Siamo al momento decisivo. Come capisce subito chiunque abbia trascorso anche solo poche ore nei Territori occupati, Israele è entrata nell’ultima fase di un’annessione totale e definitiva della Cisgiordania, del passaggio da un’occupazione temporanea a uno stato di apartheid permanente.
L’attuazione della dottrina del “Muro di ferro” di Jabotinsky, che Sharon persegue producendo “fatti sul terreno” così pesanti da far perdere ai palestinesi la speranza di poter mai avere un loro stato autosufficiente, ha raggiunto la sua massa critica. I blocchi di insediamenti israeliani hanno raggiunto una tale estensione, la loro annessione a Israele propriamente detto, attraverso un massiccio sistema di superstrade e by-pass roads, è così completa, e il Muro di separazione di Sharon che confina fisicamente i palestinesi in piccoli cantoni è ormai così avanzato, che è diventata impossibile e addirittura ridicola ogni autentica soluzione basata sui due Stati. Data la riluttanza della comunità internazionale a costringere Israele al ritiro dai territori occupati, e in particolare il rifiuto del Congresso americano di appoggiare qualsiasi significativa pressione su Israele, possiamo dire che Israele è ormai sul punto di rivelarsi come il prossimo Stato del mondo con un regime di apartheid.
Solo la road map, l’ultimo spiraglio della soluzione dei due Stati, resta a segnare il confine tra la speranza dei palestinesi di realizzare l’autodeterminazione in un loro Stato autosufficiente e realmente sovrano (anche se di dimensioni ridotte) e la creazione di fatto di un unico Stato dominato da Israele. Noi dobbiamo allora considerare la road map non tanto come l’ennesima iniziativa fallita fra molte altre, quanto uno spartiacque nel conflitto israelo-palestinese. Il suo fallimento definitivo modificherebbe radicalmente la natura stessa della lotta per una soluzione giusta e sostenibile della questione palestinese.
Il problema -più che la prospettiva, il contenuto e le procedure- riguarda la realizzazione. Come documento ufficiale, la road map presenta una serie di elementi positivi. E’ il primo documento internazionale approvato dagli Stati Uniti che auspica la “fine dell’occupazione”. Anzi, è il primo in assoluto che usa il termine “occupazione”, sfidando il tradizionale rifiuto di Israele ad ammettere che un’occupazione vi sia. E’ anche la prima iniziativa che si propone come obiettivo la nascita di uno Stato palestinese autosufficiente, andando ben oltre i vaghi e indefiniti negoziati degli accordi di Oslo. Già il semplice uso del termine “autosufficiente” (viable) ha fatto sperare che la comunità internazionale avesse finalmente preso coscienza della strategia di Israele di creare sul terreno “fatti compiuti”, che pregiudichino qualsiasi negoziato e rendano impossibile un vero Stato palestinese.
Un altro elemento positivo della road map è il fatto che sia stata fissata una scadenza a breve termine e chiaramente definita, entro il 2005, per la nascita di uno Stato palestinese indipendente, autosufficiente e democratico, che viva in pace e sicurezza accanto a Israele. Lo stesso si può dire per la natura del processo, che sarà basato sugli adempimenti e sulla reciprocità e che verrà monitorato dal Quartetto e non esclusivamente dagli ...[continua]

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