Mi stupisce l’insistenza e il tono autoassolutorio con cui molti dirigenti di primo piano dei Ds ci ricordano che Berlusconi non ha la maggioranza del Paese, anche se è uscito vincitore alla grande dalle urne.
Mi stupisce perché il compito che il popolo di sinistra -direi quasi l’unico compito- aveva delegato al suo gruppo dirigente, era in realtà proprio questo: costruire la politica delle alleanze e la capacità di coalizione necessari a sconfiggere la destra.
All’altro compito fondamentale che a un gruppo dirigente sarebbe spettato, quello di costruire una visione d’insieme, un quadro di riferimento strategico, capace di proiettare oltre il buon governo l’idea di sinistra, ci aveva rinunciato da tempo.
Rinunciando a interrogarsi sulle implicazioni politiche di fondo della caduta di Prodi.
Al Congresso di Torino dei Ds, quando le diverse anime della sinistra ( la tradizione socialdemocratica pura, a la Jospin, e quella aggiornata attraverso Schroeder e Blair); la rifondazione ulivista e l’anima “sociale”, avevano accettato una conclusione unanime e fittizia, nel comune richiamo al buon governo -appunto!- e al timore della destra alle porte.
Quella conclusione, benedetta addirittura da Sting, non segnò solo la messa tra parentesi di qualsiasi serio tentativo da parte del maggiore partito della sinistra di una elaborazione strategica collettiva, ma anche la fine di qualsiasi possibilità di muoversi tatticamente per fare coalizione.
Ogni anima -da allora in poi- segnò il proprio percorso strategico e i propri percorsi tattici, con la prevalente preoccupazione di non prestare il fianco alle critiche delle altre anime concorrenti, rispetto alle cui proposte ci si teneva comunque in serbo la possibilità di esercitare il diritto di veto.
Vuoto di elaborazione strategica condivisa e incapacità di fare coalizione -a destra, al centro e a sinistra- venivano così drammaticamente a coincidere. Giorno dopo giorno, si assisteva inerti alla Lega che si alleava con Berlusconi, a Rifondazione che decideva di andare in proprio, a Di Pietro idem, allo stesso sciagurato tentativo di D’Antoni, fortunatamente fallimentare, ma comunque in grado di portare fuori dall’orizzonte popolare e ulivista qualche centinaio di migliaia di voti.
Senza quasi battere ciglio, perché qualsiasi serio tentativo di evitare almeno una di queste cose, avrebbe inevitabilmente sbilanciato l’unità di Torino, il difficile equilibrio basato sul fatto che ciascuno avrebbe potuto giocare in proprio le proprie carte, ma che nessuna carta poteva essere giocata insieme.
Anzi, l’unica carta che si poteva giocare tutti insieme era l’incubo Berlusconi, forse tenuto in vita, non inchiodato al conflitto di interessi, proprio per questo, per la convinzione, neppure tanto sotterranea, che solo l’impresentabilità della destra avrebbe tenuto insieme una sinistra così scombinata, costretto i riottosi ad unirsi e il popolo a mobilitarsi.
Come abbiamo visto non è bastato, perché proprio l’impresentabilità della destra e la irresolutezza strategica e tattica della sinistra, hanno convinto anche molti altri che si poteva giocare in proprio, e i giochi in proprio perdono rispetto ad un avversario magari impresentabile, ma che diventa credibile in tempi di maggioritario proprio per aver coerentemente esercitato quella capacità di coalizione che la sinistra non ha saputo esercitare.
E’ normale che il deficit di elaborazione e di iniziativa politica sia stato pagato più vistosamente dai Ds, perché i deficit politici li pagano più di ogni altro quelli che si sentono e si dichiarano partito. Se al popolo si chiedeva “solo” di rompere l’apatia, di mobilitarsi per difendere il buon governo contro l’impresentabile, di testimoniare il proprio essere democratici e civili in una battaglia tanto più bella quanto più disperata, allora il riferimento non poteva essere che Francesco Rutelli e lo spirito ulivista tout court, che oltretutto era riuscito a darsi una piattaforma programmatica, con tanti limiti, ma leggibile e credibile, perlomeno di fronte alle elucubrazioni spesso sgangherate, comunque contraddittorie, che uscivano a intermittenza dalla fucina programmatica del mio partito.
Rifare i Ds è impossibile, senza ripensare i luoghi e le forme da cui una elaborazione strategica può ripartire, rifiutando ogni scorciatoia, e ogni lettura semplificata di quello che queste elezioni hanno portato alla luce.
Una lettura semplificata del voto è quella che parte dalle ...[continua]

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