Il progetto Chance (finanziato con i fondi della legge 285) è un’impresa sui generis, che si svolge dal 1998 in tre quartieri di Napoli, coinvolgendo un centinaio di ragazzi dai 14 ai 16 anni "evasi" da scuola, e un certo numero di insegnanti, mamme, operatori, volontari. Suo scopo era portare questi ragazzi alla licenza media, obiettivo che si sta dilatando via via in ampiezza e profondità. Uno studente che a scuola era riuscito a starci fino alla fine, accogliendo all’inizio questi giovani colleghi refrattari, suggerì di chiamare il progetto "T’accumpagno p’a mano": mai definizione fu più pertinente. Di un’esperienza del genere si può parlare in svariati modi. Qui ci sono alcuni racconti, di insegnanti del modulo di San Giovanni-Barra (Amalia Aiello, Anna La Rocca, Rita Iannazzone, Carla Melazzini, Fiorella Picecchi, Annamaria Torre).

La mia Fortuna.
Che l’avessi agganciata l’ho sentito quella mattina di inizio dicembre, quando mi mandò a "farne quattro", precisamente biascicando: "addò si gghiuta aiere, quanno nun sì venuta a scola" (riferendosi alla mia a assenza del giorno precedente).
Me lo disse guardandomi fisso con quei suoi grandi occhi di mare, con le guance incollate alla parete del corridoio e tutto il corpo schiacciato contro il muro, quasi a proteggere il petto che ansimava. Aveva appena finito di "schizzare" e affannava forte.
Io, intanto, a mezzo passo da lei, di fianco, gli occhi miei nei suoi, le avevo appena detto cose come: "Ti vuoi fermare? La vuoi finire un poco?"
E intanto pensavo. Le ero stata dietro solo in parte quella mattina; si era rifiutata di entrare. Da qualche tempo aveva preso a lavorare "testa a testa", da sola con me, nella mia aula: l’unica maniera che le consentisse di sostenere lo stato desolante delle sue abilità strumentali. Nel primo mese, all’interno del gruppo tutoriale, aveva arrancato, avvalendosi di una potentissima capacità di copiare, acquisita negli anni. Il problema, dopo un po’, era esploso e la derisione dei compagni era stata spietata ed insostenibile.
Quella mattina, però, Fortuna si era rifiutata di entrare, ed io, quindi, avevo preso a lavorare con altri. Poi, nel corso della mattinata, era "schizzata", e di certo mi sarà capitato di dirle quel mio: "Stai sbagliando! Fortuna, stai sbagliando!", che da qualche tempo avevo preso a proporle nei momenti più duri.
Erano due parole che pronunciavo guardandola fisso e restando, io, ferma, mentre lei lanciava urla e calci, oppure quando prendeva di mira un’aula in cui si stava lavorando, pronta, con una leggero colpo della mano, a distruggere il lavoro di un altro. Eppure quelle due parole: "Stai sbagliando", non l’avevano mai scatenata. Tutt’altro. Fortuna taceva e mi guardava. "Si stava", per dirla con parole che anche lei capirebbe. In quel momento quella sua risposta, quel suo ricordarmi che il giorno prima non ero stata a scuola, che "non c’ero stata", mi fece ridere dentro. Era la prima volta che "ridevo dentro" a Chance! Ce l’avevo fatta: l’avevo agganciata. Sorrisi. Poi le raccontai del perché mi ero dovuta assentare. Lei ascoltava e, ogni tanto, mi guardava. Era la prima spiegazione di cose "da grandi", a lei che si era fatta avanti con quel suo fare da piccola, piccolissima, fino a quel momento.
A fine gennaio Fortuna accolse senza battere ciglio la notizia di essere stata inserita nel gruppo di livello più basso.
Non consentì, invece a Carla e a Rita di diventare sue insegnanti, continuando a lavorare solo con me per almeno altri due mesi.
Accettò la presenza di altri due compagni all’interno del gruppo di recupero; ha faticosamente e lentamente imparato a confrontarsi e a palesare le sue lacune abissali, continuando a manifestare la sua insofferenza per le esigenze e i tempi altrui, e, soprattutto, la sua implacabile tendenza a volere tutta la mia attenzione per sé.
E’ stata questa la fase in cui ha manifestato, il suo bisogno di scuola, di riappropriarsi di un’identità mai conosciuta prima, ed è questa -a mio avviso- la fase in cui più forte è stato l’incremento della sua strumentalità di base.
Solo adesso mi è chiaro il motivo per il quale, proprio in questa fase, lei si rifiutasse di lavorare nei laboratori di ceramica e falegnameria. "Sapevano troppo poco di scuola", ed inoltre era ancora intollerabile, per lei, l’idea di non riuscire. Solo quando questa paura si è attenuata ha potuto accettare di scrivere il suo nome su una tavoletta di compensato, di colorarlo, di se ...[continua]

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