Scrittore politico e uno dei maestri della prosa morale e civile italiana, Gaetano Salvemini (1873-1957) si è distinto come storico e polemista. Sapeva diffidare delle idee e delle parole, della loro capacità di suggestionare e sedurre con la loro astrattezza ipnotica. E quale parola-idea come “rivoluzione” risultò più fatale fin dall’inizio del Novecento? Nel 1906, poco più che trentenne, Salvemini, pugliese di Molfetta che aveva studiato a Firenze alla scuola del positivista meridionale Pasquale Villari, pubblicò uno dei suoi libri più importanti, La rivoluzione francese. Nelle pagine iniziali del libro, l’allora socialista Salvemini si dedica a precisare e relativizzare storicamente la portata di un termine oscillante fra teorizzazioni e mitologie:

La parola “rivoluzione” può significare tanto una distruzione violenta e subitanea dell’ordine sociale e politico convenzionale (se il rovesciamento è compiuto dallo stesso governo è detto “colpo di stato”), quanto un vasto mutamento in una situazione preesistente, anche se avvenendo con lentezza e senza violenza. Nel primo caso la parola viene usata quando si parla delle due rivoluzioni di Parigi nel 1830 e nel 1848. È usata nel secondo significato, quando si dice che Colombo produsse una rivoluzione nella geografia medioevale, Copernico nell’astronomia e Galileo nel metodo scientifico, o che nella seconda metà del secolo decimottavo cominciò in Inghilterra una rivoluzione industriale.
La parola è usata in entrambi i sensi per lo sconvolgimento, che ebbe luogo in Francia, alla fine del secolo XVIII. Ma in quanto fu violenta e rapida distruzione della società feudale e del regime monarchico, si può dire che la Rivoluzione francese finì il 21 settembre 1892, quando la monarchia fu formalmente abolita (...) I periodi storici sono costituiti per comodità di chi deve ben cominciare da un anno e finire ad un altro, non potendo ogni volta cominciare dal paradiso terrestre per finire al giudizio universale (...) La Rivoluzione non è se non un termine collettivo, mediante il quale noi denominiamo con grande risparmio di tempo i nobili spogliati dai plebei dei diritti feudali, i plebei proclamanti i diritti dell’uomo, il re destituito di ogni autorità. (...)
Il pericolo incomincia quando facciamo operare la Rivoluzione come una persona in carne e ossa, come una causa storica sdoppiata dagli avvenimenti e creatrice degli avvenimenti stessi (...) Quando la Rivoluzione è divenuta una entità personale superiore agli uomini e determinatrice dei loro atti, noi siamo condotti ad attribuire in blocco la varietà degli eventi rivoluzionari alla Rivoluzione personificata e concepita mitologicamente, piuttosto che a segnare ciascun fatto all’individuo o ai gruppi di individui reali che ne furono storicamente gli autori (...).
Quando invece, si metta da parte la così detta Rivoluzione e si parli in termini concreti di rivoluzionari, e ricerchiamo i motivi dei loro atti e le note distintive della loro personalità (...) tra i rivoluzionari troviamo uomini d’ingegno e imbecilli, disinteressati ed egoisti, forti e vili.
Se a qualcuno venisse in mente (cosa accaduta spesso) che in queste considerazioni di Salvemini in quanto storico si nascondesse del “moralismo”, si dovrebbe ricordare che la Rivoluzione è fatta dai rivoluzionari e somiglia, non può che somigliare, nei suoi effetti e risultati, più a loro che a una teoria e a un concetto.
Caratteristica di Salvemini è sempre stata l’attenzione sociologica e morale o moralistica ai comportamenti, ai moventi, alla mentalità, alla cultura di chi fa politica. In questo senso si può dire che nella sua opera di scrittore militante la politica sono i politici che la fanno.
La vivacità, il sarcasmo e a volte la violenza polemica della prosa di Salvemini nascono dalla concretezza e dall’osservazione in dettaglio dei fenomeni politici, sempre considerati nelle loro radici sociali e morali. Se prima Benedetto Croce e poi i marxisti hanno rimproverato a Salvemini una “superficiale preparazione teorica” è perché non vedevano i vantaggi intellettuali e politici che lo storico e il moralista riescono ad avere rispetto a chi procede per via di deduzioni teoriche ritenute pragmaticamente necessarie, invece che per via di osservazioni dal vivo e dal vero degli atti, dei comportamenti e degli eventi.
In questa attitudine non teoricista, Salvemini mostra di avere anche alcuni tratti degli storici antichi, per i quali la società e la storia non esistevano come realtà teorizzate e teorizzabili, quanto piuttosto come realtà di fatto, incontro fra circostanze mutevoli e carattere di coloro che in esse agiscono.
Non per caso sono rimaste memorabili per il loro realismo le molte pagine che Salvemini ha dedicato alla “questione meridionale” e alla piccola borghesia che nel sud d’Italia ha sempre svolto politicamente un ruolo specifico e centrale. Ogni volta che si passa da categorie generali all’osservazione empirica, si incontrano le migliori pagine di Salvemini. Dopo l’unità d’Italia, il primo sintomo della “questione meridionale” fu il brigantaggio, poi i tumulti locali, infine l’emigrazione, che qualcuno interpretò come una soluzione dei problemi e “principio di salvezza” del Sud. Ma, dice Salvemini:

Sarebbe funesto errore illudersi che oramai non occorrerà più preoccuparsi della questione meridionale, perché c’è l’emigrazione che ne va sciogliendo, a poco a poco, gradatamente, i nodi. Delle molteplici, profonde malattie che affliggono la società meridionale – diboscamento, malaria, mancanza di capitali, ignoranza e immoralità della classe dominante, analfabetismo della classe lavoratrice, concorso attivo e sistematico dei funzionari dello Stato alla corruzione della classe dominante e alla oppressione della classe dominata – la emigrazione è un effetto, non è il rimedio: è il mezzo che hanno trovato i contadini meridionali per sottrarsi al male, non è la fine del male (...)
Ma oggi è possibile un movimento energico, costante, organico, il quale conduca al rinnovamento economico, sociale, morale di tanta parte d’Italia? Da quali uomini, da quali classi, questo movimento può essere promosso e sorretto? In generale, gli studiosi del problema meridionale questa domanda non se la pongono, o rispondono senz’altro invocando l’azione del Governo, dello Stato.
Ma che cosa sono il Governo, lo Stato? Essi non sono entità superiori agli uomini e fornite di attitudini diverse da quelle di quei dati uomini, i quali in un dato momento esercitano la sovranità o attendono alla pubblica amministrazione. Lo Stato, il Governo, oggi, sono formati: 1) dagli elettori, o meglio, dalla maggioranza degli elettori; 2) dai deputati, o meglio, dalla maggioranza dei deputati; 3) dai ministri; 4) dai funzionari dei ministeri; 5) dai funzionari governativi sparsi per le province; 6) dagli amministratori elettivi e dai funzionari degli enti locali. Questi gruppi di individui sono strettamente legati gli uni agli altri; né gli uni possono dare alla loro opera un indirizzo nuovo, senza che sia costretta a mutare correlativamente l’opera di tutti gli altri (...) Ma, quando si tratta di attuare la “buona legge”, ecco che entrano in azione quelle altre parti dello Stato che risiedono al Sud, e a cui l’attuazione della legge dev’essere necessariamente affidata: e allora la legge buona diventa cattiva, o nella migliore delle ipotesi resta priva di ogni efficacia.
(in Opere, vol. IV, tomo II, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli 1963, pp. 585-87)

Nel settimanale “L’Unità”, fondato a Firenze nel dicembre del 1911, Salvemini riassume così il suo programma:

Noi non pretendiamo di rinnovare la faccia della terra; noi non portiamo in tasca la panacea per rifare l’umanità e per guarire tutti i mali; noi vogliamo semplicemente richiamare l’attenzione degl’italiani su alcuni determinati problemi, che reputiamo, sopra tutti gli altri, gravi, per il nostro paese; i problemi che i politicanti della democrazia hanno dimenticato o -peggio ancora-  rifiutato di prendere in esame. Di questi problemi cercheremo le soluzioni, all’infuori dei pregiudizi e degl’interessi degli attuali partiti, che ci sembrano ridotti tutti alla incapacità di elevarsi al di sopra dei piccoli legami di consorteria e di setta.

Per uno scrittore politico, il compito non poteva essere più difficile. Concretezza e pragmatismo contro i “politicanti della democrazia”, di fatto nemici della democrazia, e contro o fuori degli “attuali partiti”.
Alla rivista di Salvemini non avrebbero che potuto riferirsi più tardi, dopo la fine della guerra 1915-18, sia Antonio Gramsci che Piero Gobetti. A Gramsci lo spirito di indipendenza di Salvemini sembrò un difetto politico, una condizione di debolezza, poiché l’efficacia della rivista era compromessa dal fatto che non si rivolgeva a “energie sociali organizzate”, ma “a tutti genericamente e a nessuno in particolare”; e tuttavia si trattava di “una mirabile esperienza di scuola libera per i cittadini”. Gobetti non ebbe riserve e definì “L’Unità” di Salvemini “la più feconda scuola politica che l’Italia abbia avuto in questo scorcio di secolo”. Entrambi usarono il termine “scuola”, il che non è poco: ma mentre Gobetti aggiunse senza remore l’aggettivo “politica”, secondo un’idea meno riduttiva di che cosa comporta l’azione politica, per il marxista Gramsci avere come pubblico “i cittadini” era un limite politico-sociale e indirettamente anche culturale, dato che le classi sociali e i partiti che le rappresentano non hanno la stessa cultura, o ideologia.
Questo tipo di critica marxista, in forme varie e fino agli anni sessanta del secolo scorso, non ha cessato di colpire le sinistre minoritarie, “illuministe”, radicali, liberalsocialiste non assorbite dalle grandi organizzazioni del movimento operaio. L’idea della “centralità operaia” come baricentro di una “vera” sinistra anticapitalista, ha sempre permesso di sottovalutare, se non di liquidare Salvemini come moralista politicamente “impotente”.
In realtà Salvemini parlava “a tutti” e non “a nessuno”; soprattutto parlava ai giovani intellettuali appassionati di politica, perché non si facessero corrompere e frastornare dalla politica, dalle idee politiche grandi e vuote e da quelle che considerava “filosofeserie”. La sua perdurante attualità è proprio in questo. In gioventù lui stesso si era appassionato alla politica per ragioni morali e sociali, in quanto appartenente a quella piccola borghesia meridionale di cui vedeva tutti i difetti e di cui aveva dato un perfetto ritratto. Quella classe ha finito per rivelarsi più longeva e perfino socialmente più pervasiva della classe operaia, non cessando di riprodursi in forme aggiornate e continuando a fare della politica il proprio privilegiato strumento di promozione o “scalata” sociale:

L’azione politica della piccola borghesia intellettuale, e più specialmente di quella parte di essa che non riesce a collocarsi comodamente al banchetto della vita, ha una grandissima importanza nella società moderna. Perché è questa la classe, che dà a tutti i partiti, i giornalisti, i libellisti, i galoppini elettorali, i conferenzieri, i propagandisti, e gli spostati della piccola borghesia intellettuale finiscono quasi tutti col diventare professionisti della politica e della politica peggiore: non avendo niente da fare, possono dedicare tutto il loro tempo alla vita pubblica; conquistando i primi posti nelle file dei partiti diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche più delicate (...) Nel Mezzogiorno d’Italia la potenza sociale, politica, morale della piccola borghesia intellettuale è assai più grande e malefica che nel Nord. Ed è questo, uno dei flagelli più rovinosi del Mezzogiorno. Si può dire che, nel Mezzogiorno, la piccola borghesia intellettuale è nella vita morale quel che è nella vita fisica del paese la malaria (...) Avvezzi, fin dai primi anni, a sentir magnificare la “raccomandazione” come il solo mezzo per andare avanti nella scuola, nel tribunale, nella banca, nel municipio, a Roma, essi non vedono nella vita se non un gioco di protezioni, uno scontrarsi di influenze più o meno efficaci, un prevalere di simpatie o di antipatie capricciose. Per essi non esiste nessuna scala di valori morali obiettivi. Il merito consiste nell’avere un protettore potente.
(“La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia”, 1911, in Opere, IV, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli 1963, pp. 481-84)