Contro Trump abbiamo avuto Hillary Clinton nel 2016, e ora Joseph Biden: l’ennesimo boccone amaro che la sinistra deve mandare giù. Nessuno dei due può vantare qualità di leader, nessuno dei due ha un grande appeal presso le masse, né sembra possedere una solida visione su come cambiare la società. Proprio per questo entrambi rappresentano al meglio il concetto del “male minore”. Le loro politiche interne sono tiepide; l’obiettivo è il voto degli “indecisi” e le critiche a gruppi d’interesse incentrati sull’identità sono off-limits. I loro errori in politica estera sono stati notevoli ancor prima che offrissero il loro sostegno alle invasioni di Afghanistan e Iraq. Ogni progressista dotato di senno si turerà il naso (e qualcuno lo farà più di altri) al momento di esprimere il proprio voto. E, ancor più importante, che Trump batta Biden o no, il residuo della base semifascista del Presidente, cioè tra il 35 e il 40% del Paese, resterà come una macchia sulla nostra vita politica. Di questa pessima situazione dobbiamo ringraziare i carrieristi e i cinici del Democratic National Committee [Comitato nazionale democratico, principale organo di governo del Partito democratico statunitense, Ndt].
E tuttavia è indubbio che il rifiuto a votare per il “male minore” abbia contribuito a questo stato di cose. Non è forse vero che il nostro “geniale” presidente -come Trump si autodefinisce-, nel 2016 ha vinto negli stati decisivi con meno voti di quelli conquistati dalla candidata dei Verdi, Jill Stein? Naturalmente Stein non ha mai avuto alcuna possibilità di vincere alcunché non fosse l’ammirazione dei puri di cuore, dei “giusti”, di quelli tanto egoisti che semplicemente non potevano votare per il male minore -come se le elezioni, in un qualche modo, fossero state create per le genti in ascolto del “Discorso della Montagna”.
In realtà non c’è mai stata un’elezione che non fosse fondata sulla scelta del “minore dei due mali”.
Fu così anche nella campagna presidenziale di Franklin Delano Roosevelt. Certo, paragonarlo a Hillary o a Biden rischia di deviare la conversazione. Ma nemmeno la politica di Fdr era esente da difetti. Egli, di fatto, lasciò intatte le leggi razziste “Jim Crow”, raffreddò le richieste più radicali degli scioperanti a Flint e altrove, anche se mentì dichiarando che aveva chiesto ai sindacati di “costringerlo” ad accogliere le richieste più estreme. Inoltre, tentò di manipolare le istituzioni statunitensi a suo favore; Roosevelt cercò di ottenere il controllo della Corte Suprema, e, naturalmente, fece quattro campagne elettorali. Per quanto riguarda la politica estera, inoltre, scelse di sostenere i dittatori, e non i movimenti popolari, in America Latina; diede forti poteri in materia di sicurezza interna all’Office of Naval Intelligence, provocò Hitler con le sue leggi “Affitti e prestiti”, istituì un embargo mortificante contro il Giappone, e invocò il ritiro delle forze giapponesi nell’Estremo Oriente.
Non ci spingeremo fino ad affermare che Fdr auspicasse l’attacco a Pearl Harbor, ma è difficile negare che fosse divenuto un guerrafondaio, anche in un momento in cui la maggior parte della sinistra internazionale si riuniva sotto la parola d’ordine “Mai più guerra!”.
E tuttavia, se Roosevelt avesse perso le elezioni, non ci sarebbe mai stato il New Deal, il welfare state sarebbe stato lasciato in sospeso e non avrebbe mai avuto il sostegno popolare. Criticato per i suoi errori nella gestione della Grande depressione del 1929, bersagliato dalle critiche di sinistra, che come al solito volevano “di più”, senza di lui l’idea dell’intervento pubblico nell’economia sarebbe rimasta solo un bel sogno.
Se davvero Roosevelt avesse perso, magari il risultato non sarebbe stato tanto catastrofico come nella presa di potere nazista immaginata nel libro di Philip Roth Il complotto contro l’America, ma certo le cose sarebbero andate ben peggio.
Ciò detto, Fdr fu davvero colpevole di tradimento? Ci sono parecchi pacifisti ed esponenti della sinistra radicale che la pensano così.

Ci furono molti meno dilemmi quando si trattò di scegliere il male minore in quella campagna presidenziale tra due ex vicepresidenti che rimane un argomento delicato per la mia generazione: mi riferisco a quella tra Richard Nixon e Hubert Humphrey nel 1968. Tutti disprezzavano Nixon, incluso il suo vecchio capo, il Presidente Dwight D. Eisenhower. Altrettanto disprezzo provava il suo vicepresidente, ormai dimenticato e ...[continua]

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