Rienzo Colla vive a Vicenza dove ha fondato nel 1954 la casa editrice La Locusta nella quale ha continuato a svolgere, fino ad oggi, e pressoché in solitudine, le mansioni di direttore, correttore di bozze, traduttore, spedizioniere e quant’altro.
Primo Mazzolari, già discepolo spirituale di Pietro Gazzolo, un barnabita di tendenze moderniste, fu anticipatore di tanti temi conciliari. Oltre a trovare grandi ostacoli alla pubblicazione dei suoi scritti, gli fu sempre impedito di predicare fuori da Bozzolo, un piccolo paese del mantovano, dove svolse, umilmente e con grande dedizione, la funzione di parroco.

Può raccontare come nacque la casa editrice La Locusta?
Praticamente è nata perché don Mazzolari allora non lo si poteva pubblicare da nessuna parte, così mi ci misi io. Fu nel ’54, con il libro La parola che non passa. Quella prima pubblicazione fu anche un giallo perché per pubblicare ci voleva l’imprimatur, il nulla osta del vescovo. Ora, il vescovo di Mazzolari mai e poi mai glielo avrebbe dato, ma potevo e dovevo chiederlo io come editore. Così lo chiesi qui in curia e, approfittando del fatto che era estate e il vescovo Zinato era in vacanza, andai dal vicario generale. Questi, Michelotto si chiamava, era un santo prete, proprio un prete-prete, che ai suoi tempi era stato amico di Buonaiuti, mi diede l’imprimatur. Certo, mi chiese di cambiare due o tre cose, ma cose così, che la gente forse non avrebbe capito, tipo la frase: "Oggi è sempre tempo d’Avvento", una frase che l’aveva colpito, perché lui diceva: "E’ venuto il Natale, è venuto il Signore, quindi non è più tempo d’Avvento". Insomma, correzioni minime. Quando il vescovo tornò giù e vide che tra i libri a cui la curia aveva dato l’imprimatur c’era Mazzolari, apriti cielo! Io credo che il vescovo non avesse mai letto niente, neanche un articolo, di Mazzolari, ma quelle erano le direttive, bisognava fare così. Mandò un archivista della curia, un monsignore, nella tipografia di via Carpagnon a cui avevo affidato la stampa. Questi si fece dare il quaderno degli scritti di Mazzolari e strappò la pagina con tutti i timbri e le firme di imprimatur, incurante del fatto che in questo modo offendeva anche il vicario generale. Non c’è da meravigliarsi più di tanto. Allora usava addirittura che la curia si facesse passare le bozze, il che era una scorrettezza enorme!. Comunque il tipografo fu bloccato. (L’ho sempre preso in giro per quell’episodio. Era l’unica tipografia che in tempo di guerra aveva pubblicato manifestini antitedeschi; il tipografo per questo era stato portato a Padova e torturato in quella famosa villa dove i tedeschi e i fascisti torturavano i partigiani. Pensare che uno così, dopo quello che aveva passato, si era fatto mettere in mezzo da un prete!).
Poi il vescovo mi mandò a chiamare e mi disse che la curia era disposta a pagare tutte le spese -erano già 2-300 mila lire, per stampare un libro allora si spendeva così- che c’era stato un errore perché, appunto, un imprimatur a Mazzolari non si poteva dare. Allora io dissi, e non so come mi venne, che credevo che nella Chiesa ci fosse la libertà, lo credo profondamente... Ma lui pensava che fosse un frase buttata lì così, invece manovrai, cercai di qua e di là, e alla fine arrivai a Pinerolo (a Pinerolo ci sono i valdesi, l’aria di montagna, la neve...), chiesi al vescovo e lui mi diede l’imprimatur. Poi mi rifugiai a Genova, dove degli amici facevano una rivista, Il Gallo (Mazzolari, in verità, non l’amava tanto; lui era più sanguigno, quelli per lui erano troppo letterati, troppo mistici e spirituali), che stampavano a Rapallo. Così i primi libri furono stampati a Rapallo.
Ecco, l’avventura della Locusta iniziò con questo libro, La parola che non passa, che ebbe successo, fu pubblicato in Francia, in Spagna, tant’è che una volta, in una ristampa, misi una pagina tutta piena di imprimatur. Ma queste sono cose su cui non si dovrebbe scherzare (anche se devo ammettere che l’umorismo, nei momenti peggiori, mi ha aiutato non poco).
Come aveva conosciuto don Mazzolari?
Lo conobbi quando facevo il liceo, nel ’39. Avevo letto un libro, La via crucis del povero, mi aveva colpito, e allora gli scrissi, lui mi rispose, e così iniziò una corrispondenza. Poi c’è stata la guerra e solo quando questa finì ci incontrammo. Cominciai a vederlo regolarmente una volta al mese: andavo col trenino da Vicenza a Verona, poi da Verona a Mantova, dove dovendo stare fermo due ore, andavo a vi ...[continua]

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