Alessandro Scaglione, manager esperto di internazionalizzazione, attualmente lavora presso il gruppo Argomm.

Fin dalle tue prime esperienze lavorative sei stato coinvolto nella gestione della delicata fase dell’internazionalizzazione di imprese grandi e medio-piccole.
Completati gli studi, la mia prima esperienza è stata in Comau, del gruppo Fiat, all’interno di un progetto di razionalizzazione del parco fornitori. Era la seconda metà degli anni Novanta. All’epoca, Fiat, per chiudere i bilanci, una parte la scaricava sui fornitori, andando a chiedere indietro i soldi pagati durante l’anno, per l’altra Romiti "magheggiava”... Così, alla fine degli anni Novanta, di colpo, Fiat Auto, dovendo liberarsi di non ricordo quante migliaia di persone, le tolse dalla manutenzione degli impianti e le spostò in Comau: "Da domani mattina voi vi chiamate Global Service e, oltre agli impianti, ne fate anche la manutenzione e la conduzione”. Comau, che all’epoca fatturava 1.500 miliardi e aveva 5.000 dipendenti, passò improvvisamente a ventimila dipendenti. Lì feci Germania e Francia. Un anno in Germania a fare marketing d’acquisto e un anno in Francia dove Comau aveva ancora Huron-Graffenstaden, che aveva il simbolo della testa d’indiano, un’azienda famosa negli anni Cinquanta-Sessanta quando forniva le macchine utensili alle scuole professionali francesi per tornitori. Comau l’aveva acquisita negli anni Ottanta; l’azienda intanto aveva perso valore, così a fine anni Novanta avevano deciso di dismetterla.
Per farle riacquistare valore mandarono il Direttore Acquisti di Gruppo con una squadra di manager e con due giovani di belle speranze: io agli Acquisti e un altro ai Tempi e Metodi; venne ridisegnata la gamma del prodotto, l’azienda riprese valore dopodiché venne venduta. A quel punto tornammo tutti a casa. Avendo fatto due anni all’estero, e con buoni risultati, ero pieno di aspettative, invece torno e mi dimezzano quasi lo stipendio, dicendomi: "Questo è”. Prendere o lasciare. Resto ancora un anno, anche se capisco che non è la mia strada.
Vado a fare l’acquisitore di progetto, nella divisione che si occupa di impianti di verniciatura, e seguo due commesse, una che mi porta per tre mesi in India, l’altra che mi porta per un paio di mesi in Brasile. Quella per l’India è il progetto della Palio, world car della Fiat, e lì sbatto il naso contro il provincialismo con cui Fiat affrontava l’internazionalizzazione, l’andare all’estero. Pensavano che gli indiani avessero l’anello al naso, arriviamo noi (che non parliamo neanche bene l’inglese, ma un ottimo torinese fluente) e gli insegniamo come si fanno le automobili. L’amministratore di Fiat Auto non si era però preoccupato neanche dei fondamentali del marketing, ad esempio di verificare se qualcun altro stava uscendo con un prodotto simile sul mercato locale (più di un miliardo di abitanti, in crescita economica). Fatto sta che il "qualcun altro” invece c’era ed era la Tata che stava uscendo con una vettura della stessa categoria.
Bene, ero a Pune da due mesi, dopo aver fatto gli acquisti dei prodotti ad alto contenuto tecnologico in Europa. Stavo ingaggiando i fornitori locali per le travi in ferro e altro materiale che non aveva senso trasportare dall’Europa; un giorno arrivo in ufficio e vedo dei grandi scatoloni: "Si torna a casa”. Come si torna a casa? Era un progetto miliardario; Fiat aveva negoziato col governo del Maharashtra, la regione di Bombay, il greenfield fiscale; avevo visitato lo stabilimento -un milione di metri quadri- dove avevano già costruito financo le casette prefabbricate per gli operai. Quello che non avevano fatto era l’analisi del time to market, cioè del tempo che sarebbe intercorso dall’ideazione del prodotto alla sua effettiva commercializzazione. A quel punto scoprirono che la Tata li avrebbe anticipati invalidando la bontà del progetto. L’avventura in India, al posto di uno stabilimento proprietario, finì ripiegando su una logora joint venture col leader nazionale, in uno stabilimento dove producevano già la Uno.
L’esperienza in Brasile, con Renault, invece andò bene, ma avevo capito che non era il mio mondo.
Tornato dal Brasile fai la prima esperienza in un’impresa familiare.
Entro nell’indotto della prima cintura torinese, in un’impresa nata dalla creatività vulcanica di un signore, terzo o quarto di sette figli; famiglia di Nebbiolo di coltivatori e vignaioli. Non volendo fare la vita di campagna, era entrato in fond ...[continua]

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