Concetto Maugeri (concetto.maugeri@poste.it), attualmente consulente e libero professionista, è stato a lungo Dirigente del settore politiche attive del lavoro della Regione Piemonte.

Lei è stato tra i primi funzionari pubblici a occuparsi delle politiche attive, quando ancora quasi non se ne parlava. Può raccontare?
Ho seguito la nascita e lo sviluppo delle politiche attive dalla fine degli anni Settanta, inizio degli anni Ottanta, ricoprendo ruoli di funzionario e successivamente di dirigente, sempre all’interno della Regione Piemonte. Per politiche attive intendiamo un insieme di azioni consapevolmente organizzate che, a differenza di quelle passive (ammortizzatori sociali, sussidi, ecc.) promuovono l’agire autonomo della persona, cercando di aiutarla ad utilizzare al meglio le risorse di cui dispone (sue o della propria rete sociale di riferimento) o ad acquisirne di nuove attraverso l’intervento di servizi professionali di orientamento, di formazione, di accompagnamento all’inserimento lavorativo, di mediazione e di incontro con i bisogni di lavoro espressi dalle imprese, ecc.
Nella prima fase della mia vita professionale, ho svolto attività di ricerca sulla popolazione, sulla sua distribuzione e caratterizzazione nel territorio, per poi specializzarmi in analisi del mercato del lavoro e della disoccupazione. Ho contribuito a far nascere "L’osservatorio sul mercato del lavoro”, che in qualche forma esiste ancora oggi.
In quel contesto un particolare valore ha assunto, anche per i riflessi sulla nascita delle nuove politiche, un’indagine sulla disoccupazione nell’area metropolitana torinese condotta sul campo, intervistando lo stesso campione di persone in cerca di lavoro due volte in un arco di tempo abbastanza lungo; la seconda intervista è avvenuta a distanza di circa due anni per tentare di avere indicazioni su quante di esse fossero uscite dalla disoccupazione, sul come e su quante invece fossero rimaste in quella condizione.
Dai risultati emergeva non solo una differenziazione tra chi riusciva e chi no nella ricerca, ma anche una forte differenziazione dei profili, lavorativi, personali, sociali, ecc. La probabilità del singolo disoccupato di uscire dalla disoccupazione risultava così fortemente condizionata dalla combinazione di diversi fattori sociali che rimandavano al loro atteggiamento, alla famiglia ed al grado di socializzazione, alle competenze acquisite nei contesti scolastici e formativi, ecc.
Essa si innestava in un filone di ricerca che usciva da un approccio macro, di carattere fondamentalmente economico, per focalizzarsi sulla notevole differenziazione della disoccupazione.
Per quanto i disoccupati fossero molto diversi tra di loro, un fattore in particolare risultava fortemente correlato con il successo della ricerca di lavoro: si trattava della capacità della persona di attivarsi, di mettere in moto una autonoma ed organizzata strategia personale di ricerca del lavoro.
Ad avere più chances erano insomma i soggetti maggiormente in grado di muovere le loro risorse relazionali e professionali per raggiungere un risultato, che, forse, non era la soluzione ottimale dal punto di vista delle aspirazioni personali, ma ottenere un lavoro e quindi un reddito era comunque un buon passo avanti per acquisire ulteriori risorse e poter perfezionare una strategia personale volta al miglioramento della propria condizione lavorativa e vitale.
I soggetti con meno risorse personali, sociali, meno reti di riferimento risultavano più facilmente esposti al fallimento, e dunque avrebbero richiesto un maggiore aiuto e sostegno, che ne accrescesse e valorizzasse l’autonomia.
Queste analisi e la riflessione sulle politiche nella quale si inserirono, misero in evidenza l’esigenza che le politiche avrebbero dovuto offrire un aiuto personalizzato, disegnato su profili individuali. Bisognava ripensare l’intero sistema. Innanzitutto avvicinandosi al bisogno delle persone e delle imprese con servizi diffusi territorialmente in grado di sostenerne le strategie di ricerca e di favorirne l’incontro.
Allora c’era il cosiddetto collocamento…
Il collocamento era fondato sulla presunzione che, attraverso una qualifica identificata con un nome ed un codice, si potesse collegare il profilo lavorativo di una persona a una mansione richiesta da un’impresa (per cui a tornitore richiesto tornitore offerto, a fabbro fabbro, eccetera). Questa modalità meccanica non ha mai funzionato né dal punto di v ...[continua]

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