Luciano Orsi, anestesista rianimatore, membro della Consulta di Bioetica, docente presso la Scuola Italiana di Medicina Palliativa (Simpa), è responsabile della Rete Cure Palliative e dell’Unità Operativa Cure Palliative dell’Ospedale di Crema.

Nelle ultime settimane, si è sentito molto parlare della condizione di “stato vegetativo persistente”. Si è sentito anche dire di tutto, purtroppo. Possiamo provare a spiegare di cosa si tratta?
Qualche chiarimento fisio-patologico è bene farlo. Lo stato vegetativo è una condizione che segue al coma, che è una fase acuta che di solito non supera il mese. Se dopo questo mese, il paziente non va incontro a nessun progressivo recupero della coscienza e non esce dal coma, ma rimane nello stato di perdita di coscienza, allora si parla di stato vegetativo. Si tratta di uno stato che può prolungarsi per mesi o per anni, una condizione caratterizzata dalla perdita della coscienza del paziente. C’è una conservazione della vigilanza, per cui il paziente ha dei ritmi di sonno-veglia. Sono pazienti generalmente nutriti, ovviamente per via artificiale perché la loro capacità deglutitiva è assente o non sufficiente per l’assunzione di farmaci, figuriamoci per l’idratazione e la nutrizione; hanno anche un respiro spontaneo, però non sono in connessione con l’ambiente. Non c’è nessuna risposta agli stimoli ambientali. Nel corso di alcuni studi recenti sono state fatte delle Pet su pazienti in stato vegetativo persistente da meno di un anno, in cui si vede che ci sono delle attivazioni delle aree sottocorticali. Lo stato vegetativo non è caratterizzato da danni ben definiti, sono danni prevalentemente a livello della corteccia cerebrale, ma anche più profondi, che sono distribuiti in modo variabile. Quindi parliamo di cervelli con gravi lesioni, ma non uniformi.
Al di là degli aspetti fisio-patologici, rimane il fatto che sono pazienti completamente dipendenti dall’esterno, che non hanno un contatto con l’ambiente intellegibile. Va anche detto che lo stato vegetativo permanente è una condizione creata dalla medicina moderna, quella degli ultimi trenta-quarant’anni, che però l’ha sempre considerato un prodotto infelice della rianimazione, peraltro inevitabile, perché nel momento in cui un paziente ha un arresto cardiaco o un trauma grave alla testa per un incidente automobilistico, ovviamente va rianimato, va trattato.
Il problema è che in passato o ripartiva il cuore o il paziente moriva. Oggi invece può accadere che riparta il cuore ma con un cervello gravemente danneggiato o che l’organismo sopravviva a dei gravissimi danni cerebrali, di qui questi epiloghi, che, ripeto, non sono degli esiti desiderati o auspicati dalla medicina.
Tant’è che nelle rianimazioni si consiglia, ad esempio, di non prolungare il massaggio cardiaco o la ventilazione artificiale oltre un certo periodo di tempo, dopo una certa quantità di minuti, proprio perché più passa il tempo, più può ripartire il cuore, ma con gravissimi danni cerebrali. In questi casi la medicina ha sempre posto dei limiti, che sono diversi a seconda che ci sia l’annegato in acqua fredda (in cui il cervello si conserva di più, quindi ha meno danni) piuttosto che in altri contesti. Però nessuno ha mai consigliato di massaggiare un paziente per tre quarti d’ora, un’ora in condizioni normali, proprio per questi rischi.
Allora, se la medicina ha sempre auspicato di trattare i pazienti, ma di creare meno stati vegetativi, diventa logica conseguenza permettere a questi pazienti di non rimanere in questa condizione così sciagurata, così sfortunata, di essere sopravvissuti a un evento acuto ma con danni assolutamente devastanti. Da qui il tentativo dell’etica di dare alla medicina un aiuto, aprendo una porta d’uscita a questi pazienti, così che possano, in modo anticipato, decidere se questa condizione di stato vegetativo è per loro accettabile oppure assolutamente non voluta, inaccettabile, non tollerabile. Altrimenti la prospettiva è quella di rimanere intrappolati in una condizione in cui non si può più decidere nulla, ma di fatto si viene mantenuti artificialmente in vita dalla nutrizione artificiale e da altri farmaci. Questa è veramente una condizione terribile, se non è desiderata. Se invece è desiderata, è una condizione di pesante impegno assistenziale, ma dovuta e doverosa al paziente che la sceglie.
Questo discorso vale anche per altre condizioni della medicina. Per esempio, un paziente che finisc ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!