Mauro Boarelli, storico e saggista, vive e lavora a Bologna, dove si occupa di progettazione culturale presso un ente pubblico. Nel 2007, per Feltrinelli, ha pubblicato La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956).

Per avvicinarsi al tuo lavoro di ricerca, è importante comprendere i meccanismi dell’autobiografia. Come venivano scelti i militanti comunisti che dovevano scrivere le autobiografie? Perché quelli e non altri? Come avveniva la selezione iniziale?
Nel caso che ho studiato, si trattava di militanti che frequentavano la scuola di partito a Bologna. Erano militanti di base, con un livello di alfabetizzazione mediamente piuttosto basso, in prevalenza contadini o operai di prima generazione. Si trattava quindi di un’autobiografia praticata da persone che avevano già qualche esperienza nel partito, e che il partito aveva selezionato per migliorarne la formazione politica. Questo aspetto è importante, perché dimostra come l’autobiografia non veniva usata come strumento di conoscenza. Si trattava piuttosto di un metodo per costruire gerarchie all’interno del partito. Era uno strumento autoritario, ma al tempo stesso metteva in gioco l’identità personale in maniera molto forte. Nessuno prima di allora aveva chiesto a un contadino o a un operaio di raccontare la propria vita, perché questo non importava a nessuno. Per la prima volta, grazie al Pci, un contadino o un operaio semianalfabeti si sentivano importanti, la loro biografia veniva considerata significativa. E’ chiaro che percepivano anche la violenza di questa pratica, specialmente nella sua forma orale, ma al tempo stesso ne erano fortemente attratti, e quindi la legittimavano nel momento stesso in cui la subivano.
Nel tuo libro tracci delle similitudini tra l’indottrinamento dei militanti comunisti italiani nel secondo dopoguerra e quanto era già avvenuto negli anni ’30 in Unione Sovietica. Forse è possibile, però, ragionare anche su una continuità tutta italiana. Sappiamo, ad esempio, come l’educazione politica avesse assunto forme “religiose” durante il fascismo. E con tutte le differenze del caso, ci sembra che questa idea di formare una fede politica non fosse stata completamente abbandonata con la sconfitta del fascismo. Anzi, negli anni ’50, assunse un nuovo impulso nel contrasto tra la “chiesa” comunista e quella cattolica... Sta in piedi questa lettura?
Direi di sì. Come avete ricordato, il mio studio è incentrato su un periodo più ampio rispetto a quello della produzione autobiografica analizzata, perché le pratiche di cui parlo hanno un’origine più antica. Quindi in realtà preesistono a quel conflitto con la Chiesa cattolica di cui parlavate, non solo cronologicamente, ma anche culturalmente, perché ho cercato di dimostrare come la pratica autobiografica fosse importata dall’Unione Sovietica e affondasse le proprie radici nella Chiesa ortodossa russa. Negli anni ’20, con la bolscevizzazione, le politiche educative e la pratica autobiografica vengono esportate in tutto il mondo comunista. Nel dopoguerra, quando il Pci costruisce la sua base di massa e insedia le proprie organizzazioni territoriali, questo processo si afferma pienamente. Da questo momento è possibile costruire sul piano storico un confronto con la Chiesa cattolica, che nel libro ho cercato di condurre al riparo dagli stereotipi che hanno spesso segnato questo tipo di confronto. Questo terreno di ricerca permette anche di rivisitare con più attenzione il tema della laicizzazione, molto studiato per quanto riguarda l’Emilia Romagna degli inizi del ’900. Credo che questo tema vada visto anche da un’angolazione diversa, nel senso che le autobiografie lasciano intravedere un processo di laicizzazione più lento, ma soprattutto più contraddittorio, un processo in cui il distacco dalla religione cattolica non è avvenuto in maniera così netta e così perfettamente databile. Le contraddizioni fanno parte della ricostruzione storica, vanno spiegate, non vanno accantonate. Nei loro racconti, i militanti comunisti affermano di avere compiuto in modo definitivo il percorso verso la laicizzazione e l’ateismo, ma al tempo stesso lasciano tracce -non sempre visibili a occhio nudo- della permanenza di forme di religiosità, e probabilmente questi residui contribuirono a rendere più accettabili ai loro occhi la pratica autobiografica, perché questa presentava qualche parentela con la confessione.
A proposito della metodologia peculiare della tua ric ...[continua]

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