Giovanni Rigoni è Capo Divisione Tributaria dell’Associazione Artigiani della provincia di Vicenza.

Quest’estate si è parlato molto degli studi di settore. Possiamo ripercorrere la loro storia, come sono nati?
Faccio un passo indietro. Quando nel 1973 c’è stata la riforma tributaria, è stato impostato un discorso, a livello di accertamento, molto lineare e rigoroso: il contribuente dichiarava il proprio reddito, l’amministrazione finanziaria andava a verificare se il dichiarato era corretto o meno e, in caso di anomalie, doveva esibire delle prove dicendo: non è corretto per questo e questo motivo. Questa situazione comportava un certo impegno agli uffici finanziari perché dovevano dare ragione del proprio operato, però era il meccanismo corretto: tu fai una dichiarazione e io -nel caso- ti dimostro che quello che dichiari non è giusto. Solo che le aziende da verificare erano molte, le risorse quelle che erano, e così si è iniziato a cercare degli strumenti cosiddetti induttivi, presuntivi, per poter dire: tu, azienda, dovresti dichiarare tot. Qui la storia è lunga: comincia con la famosa Minimum tax, seguono i coefficienti presuntivi di reddito, di ricavi, per approdare ai parametri e infine agli studi di settore.
Questi ultimi sono strumenti presuntivi, si basano su una statistica che a sua volta si fonda sui dati raccolti mandando un questionario a tutti i contribuenti. Con questi dati raccolti, sono stati costruiti dei modelli, sui quali c’è stato un confronto con le associazioni di categoria, infine sono stati validati da una commissione di esperti così da diventare degli strumenti con i quali l’amministrazione finanziaria può accertare il reddito delle varie aziende.
Il problema di fondo qual è? Che in questo passaggio c’è stata l’inversione dell’onere della prova. Cioè io presumo (secondo i dati e le informazioni in mio possesso, le statistiche elaborate, il modello matematico), che tu dovresti dichiarare tot di ricavi. Se non arrivi a dichiarare tot devi tu dimostrarmi il perché. Questa dimostrazione viene delegata all’accertamento con adesione, il cosiddetto concordato, che si va a discutere con gli uffici finanziari. Se si riesce a trovare un accordo, bene, sennò il contribuente o paga o ricorre in commissione tributaria. Questo è lo schema base.
Per il 2006, oltre a questi meccanismi matematici di determinazione dei ricavi, sono stati introdotti anche quattro indicatori contro cui le associazioni di categoria si sono mobilitate. Può spiegare?
Si tratta appunto di quattro indicatori, tratti da leggi aziendalistiche, che vanno ad indagare ulteriormente se il dichiarato e gli equilibri gestionali sono corretti.
Perché c’è stata la rivolta? Intanto perché sono stati elaborati frettolosamente e senza il confronto con le categorie. Inoltre non sono calcolati per ogni singolo cluster, per ogni singola categoria, ma per macrocategorie, con l’effetto di creare delle distorsioni di non poco conto.
Ma, al di là di questo, il dato preoccupante è che si vanno a utilizzare sempre più esasperatamente degli strumenti induttivi che non sono ancorati alla realtà, ma che sono appunto delle costruzioni. Già lo studio di settore di per sé è una costruzione matematica, ma ora, con questi indicatori, andiamo a fare costruzione su costruzione, cioè -ed è questo che noi abbiamo denunciato- nasce un’impresa virtuale, un’azienda costruita sulla carta, che è molto lontana dalla realtà. Per avvicinarla alla realtà ci dovrebbe essere un confronto serio con gli uffici finanziari che però allo stato attuale è molto difficile, perché anche loro si trovano a gestire uno strumento nuovo e quindi esitano ad accogliere istanze troppo divergenti dal presunto dovendo a loro volta rispondere del perché hanno accettato quel ragionamento del contribuente piuttosto che no.
Ecco perché le associazioni di categoria si sono ribellate. Noi diciamo che gli studi di settore sono uno strumento da prendere con le pinze perché si basano su un’induzione, se poi all’induzione aggiungiamo anche questi indicatori (tra l’altro applicati retroattivamente, perché li hanno definiti nel 2007 e si riferiscono al 2006), insomma, anche sul piano giuridico, non mi sembra un modo di procedere molto corretto. E’ evidente anche la volontà di fare cassa, tant’è che è stato messo in finanziaria…
La stessa terminologia, l’indicatore di congruità, di coerenza, l’indice di normalità economica, suona un po’ kafkiana. Possiamo entrare un po’ nel ...[continua]

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