Luca Ostacoli, psichiatra psicoanalista, lavora presso l’ospedale San Luigi di Orbassano, Torino. Uno degli ambiti più importanti della sua attività riguarda proprio il lavoro con i pazienti affetti da malattie gravi quali il cancro, la sclerosi multipla, la fibrosi cistica e altre patologie, con particolare riguardo alla conclusione della vita.

Può spiegarci che cos’è esattamente la psico-oncologia e di che cosa si occupa?
Intanto vorrei fare una precisazione. Si parla di psico-oncologia perché si parla molto di cancro, ma quello che noi diciamo riguarda tutte le malattie gravi che minacciano la vita. Il cancro è quella più diffusa, la più nota, quella su cui c’è anche un maggior investimento di risorse, ma ci sono tante altre malattie che hanno caratteristiche del tutto simili. Se vogliamo individuare una data di nascita ufficiale della psico-oncologia possiamo risalire agli anni ’50, alle ricerche della Kluber Ross, una psichiatra americana che intervistò gli ammalati e sulla base di tali interviste impostò la formazione ai medici e agli infermieri degli ospedali in cui lavorava (la ricerca fu poi pubblicata in un libro tradotto in Italia con il titolo La morte e il morire). Le interviste venivano fatte dietro un vetro, in modo che l’ammalato non si sentisse invaso dalla presenza degli operatori e potesse parlare liberamente.
Elizabeth Kluber Ross diede una dimostrazione molto aperta, molto diretta sia della “parlabilità” con gli ammalati, ma anche dei risultati di tale parlabilità: parlare apertamente non scatenava affatto depressioni suicidarie come si temeva, ma semmai procurava sollievo, perché, senza ovviamente eliminare la sofferenza, aiutava a riaprire delle relazioni.
Si sono fatti dei grandi passi avanti in questo senso?
Oggi nei convegni si sente dire che si parla molto di più. Secondo me non è poi così vero, nel senso che quando si va nella normale pratica clinica oncologica si vede che una comunicazione aperta sulla conclusione della vita è ancora oggi molto delicata. Certamente oggi “il parlare” non è più osteggiato come un tempo, e infatti si parla tanto anche di psico-oncologia. Cosa è successo? Un aspetto sicuramente importante è il miglioramento delle cure: anche se la percentuale di tumori maligni che guarisce non è cambiata di tanto, è completamente cambiata la durata e la qualità della sopravvivenza. Malattie che prima avevano un decorso molto breve oggi permettono un’aspettativa di vita di molti anni. E rispetto alla qualità di vita, basterebbe pensare ai progressi fatti nella cura del dolore, il sintomo più distruttivo, quello che impedisce qualsiasi forma di relazione. Oggi il dolore, nella stragrande maggioranza dei casi, è gestibile, se affrontato correttamente, per tutto l’arco della malattia. Anche quando il corpo è più stanco, anche quando diminuiscono le cose che si possono fare, il non provare dolore permette di mantenersi vivi, continuando ad avere emozioni, bisogni, domande, e questo fino all’ultimo. Il miglioramento delle terapie del dolore ha veramente aperto la strada alla relazione. La stessa relazione col personale nel tempo si approfondisce, diventa anche più intima e questo crea il bisogno di avere delle risposte, che non riguardano solo il protocollo terapeutico. Insomma, i progressi della medicina che portano alla diminuzione della sofferenza fisica rendono il morire meno terribile di una volta. Certo morire è sempre molto triste, però morire senza essere in balia della sofferenza fisica lo rende un po’ meno spaventevole e quindi anche “più parlabile”.
La sofferenza domina certamente tutto il percorso.Quella fisica ora può essere combattuta, e questo è già molto importante. Si può combattere anche quella emotiva, sapendo però che nessuna magia, nessuna strategia può eliminarla. Che con la malattia la persona entri in crisi è intuibile. Si può però convivere con essa, continuare a restare realmente vivi come persone. Parlarne, quindi, non annulla la sofferenza, ma aiuta a creare una cultura che riduca il tabù del morire.
Si va anche verso una minor ospedalizzazione del morire?
La cosiddetta “deistituzionalizzazione” del morire è un altro risultato dei progressi di cui parlavo. E’ un aspetto più sociale, più culturale, ma non di secondaria importanza. Il morire, che era ormai un evento da confinare nell’ospedale, in camere molto asettiche, oggi può avvenire di nuovo a casa propria. Nella maggioranza delle città italiane sono ormai state attiva ...[continua]

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