Adriana Saieva, 34 anni, insegna nella scuola elementare statale “Cascino” presso il mercato “Ballarò” di Palermo.

Sei nata in un piccolo paese di montagna dell’agrigentino: come mai ti ritrovi a insegnare a Palermo?
E’ stata una scelta di vita. Non avevo compiuto i dieci anni quando la televisione annunziò la morte di Peppino Impastato; ricordo con chiarezza che la versione ufficiale -un suicidio, forse accidentale- mi suonò subito inautentica. Crescendo mi sono informata meglio sulla sua vicenda umana e politica e ho deciso, nei limiti delle mie competenze, di mettere la professionalità a servizio della lotta alla mafia. Così, sin dagli anni universitari, ho ritenuto strategico andare a lavorare nei quartieri cittadini più difficili, da dove molti preferiscono fuggire appena possibile. Sono quei quartieri che, col diploma magistrale in tasca, ho cominciato a frequentare dieci anni fa da operatrice volontaria prima e da insegnante poi.
Suppongo tu sia stata incoraggiata anche dai risultati della tua presenza...
La lettura di testi di psicologia infantile, l’esperienza che andava pian piano maturando e anche un po’ di intuito mi hanno fatto collezionare dei risultati che ai miei occhi sono importanti, ma contemporaneamente ho fallito decine di volte, lasciandomi sfuggire l’occasione di determinare cambiamenti significativi ed efficaci. È un continuo lavoro su se stessi questo, un continuo passarsi al setaccio per aggiustare il tiro delle proprie azioni.
Ogni giorno cerco di non perdere di vista dei punti fondamentali. Innanzitutto mi dico che devo essere coerente e questo significa non essere rigidi, ma agire secondo un codice che vuole rispetto per il prossimo e atteggiamenti non violenti. Trovarsi sul campo e contrastare un codice mafioso è un’impresa difficile: l’unica arma che a lungo andare dà i suoi risultati è la coerenza verso un proprio codice comportamentale. Ma proprio riuscire ad essere coerenti con se stessi è difficile. Se si crede che l’altro sia un soggetto da rispettare, che l’ira e l’aggressività non siano strumenti pedagogici, che l’educazione alla legalità passi prima di tutto dalle proprie azioni, già si può parlare di fare effettivamente antimafia. Gli ostacoli che si presentano anche ai più volenterosi sono molti: nel mio caso posso dire di aver fatto vincere la prepotenza in momenti di grande frustrazione, quando la stanchezza dilaga e mantenere il controllo diventa un lavoro titanico.
Per fare questo lavoro forse bisognerebbe avere, tra requisiti precisi, calma e serenità, un autocontrollo costante. Quando mi accorgo di sbagliare, per concedermi una possibilità ulteriore mi dico che devo saper tornare sui miei passi, analizzarmi, rivedere e correggere il tiro studiando modi più efficaci per affrontare situazioni simili a quelle che hanno provocato l’”esplosione”.
Alla luce di quali criteri avviene questo tuo processo autocritico?
Ogni giorno mi ripeto che i bambini vanno presi sul serio e che bisogna mantenere le promesse che si fanno: non prospettare punizioni o premi che poi risultino spropositati, inadeguati, eccessivi e soprattutto non realizzabili. Non lasciarsi scappare mai: “Se fai una cosa del genere, non ti faccio mangiare a merenda…. Ti spedisco in direzione e lì vedrai che ti succede…. Non ti faccio lavorare col pongo o non ti faccio suonare gli strumenti…”. Chi se la sentirebbe di eliminare l’unica gratificazione che un bambino trova a scuola in questo momento? Eppure, da alcune colleghe, ho ascoltato un elenco di minacce ancora peggiori. Mi ripeto che non devo imporre, ma mettere nelle condizioni di capire e crescere; non devo usare messaggi repressivi o direttivi, pretendendo che l’alunno li accetti senza fiatare. Ogni giorno mi ripeto che queste sono strategie di educazione mafiosa e non posso quindi essere io a metterle in atto. A questo proposito ho trovato un valido sostegno in Insegnanti efficaci di Thomas Gordon.
Forse un giorno riuscirò a non commettere più degli sbagli e a diventare un’insegnante efficace anche dal punto di vista dell’antimafia; per il momento non posso far altro che consultare continuamente il libro come fosse un manuale di anatomia dei comportamenti, per cercare di capire dove si è inceppata la comunicazione. Posso andare a consultarlo per capire dove è l’errore, per cercare di non ripeterlo più. E’ difficile, ma ne vale la pena.
Abbiamo capito che si tratta di una situazione a costante rischio di errori. Ma poco fa h ...[continua]

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