Norma De Somma è caposala presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma, Giuseppe Carbut, coordinatore infermieristico, è responsabile della formazione per gli specializzandi e per gli infermieri.

Nonostante sia la terza diagnosi, dopo la malattia oncologica e quella cardiovascolare, la malattia mentale continua in qualche modo a rimanere "invisibile”.
Norma. La malattia mentale è la bestia nera della sanità. Anche chi ci lavora è stigmatizzato, ti mettono qua sotto (siamo al terzo piano sotto terra), e non ti vogliono vedere. Nessuno vuole ricordare che ci siamo, nessuno vuole saperlo. La malattia mentale non deve lasciare tracce, dare segni visibili. D’altra parte, il malato mentale non produce reddito, non rende, perché non chiede investimenti in macchine o in visite specialistiche.
Con la legge 180, della salute mentale sono responsabili le Asl che operano attraverso comunità terapeutiche ed altri servizi. Ma gli unici luoghi deputati alla cura sono gli Spdc, che lavorano coordinandosi con i Csm, i Centri di Salute Mentale presenti sul territorio. Ce ne sono diversi, ma sempre in posti difficili da raggiungere, posti nascosti. E poi, a fronte di un aumento della diffusione di queste patologie, ci sono sempre meno fondi. Un autentico disastro. Nei Centri di salute mentale non ci sono neanche le macchine per andare a trovare i pazienti a casa.
Eppure c’è una richiesta enorme: qui spesso siamo costretti a mandarli via, proprio perché non c’è spazio. Le stanze sono da due, ma in tutte c’è sempre il terzo letto.
A volte le famiglie arrivano per caso, soprattutto le madri, magari nell’impegnativa il medico ha scritto la parola "psichiatrico” e loro alzano gli occhi un giorno per strada e leggono psichiatrico. E vengono a chiedere: che cosa è quest’esame, questa "psichiatria”? Non è chiaro. Non è il fegato, non è l’intestino, non sono le articolazioni.
Quando una persona dà fuori di testa, la famiglia non si rivolge al Csm, ma va subito al pronto soccorso dell’ospedale. L’ospedale mantiene sempre un’aura di salvezza. Salvo poi accorgersi che in ospedale non c’è modo di fare granché. Ad uno psichiatra dovrebbero essere assegnati venti, trenta pazienti ed invece arriva ad averne trecento.
Giuseppe. Ma se ti devi occupare di trecento pazienti la cosa non funziona più. Perché la malattia mentale, più di ogni altra, si nutre della sua individualità. Ogni disturbo psicotico nasce dalla storia della persona, quindi le risposte standard, i trattamenti preconfezionati non funzionano. Già per loro è difficile... È difficile che una persona possa dirsi: "Io sono un malato mentale” e allora ti chiudi e non ti curi. L’isolamento è il grande problema. Le famiglie se li tengono chiusi in casa. Il figlio magari ha una crisi, ma appena l’episodio acuto passa, si fa finta di niente. E per episodio acuto non intendo la tristezza, la malinconia, che fanno parte della vita, ma quando si cominciano a rompere oggetti in casa e cose del genere. La malattia si ripropone con acuzie sempre più gravi, ma senza un connotato organico. È questo il nodo. Se non c’è un disturbo fisico le famiglie pensano che non ci siano problemi. Purtroppo non ci sono campagne di informazione serie. La cosa dura fino a quando il paziente "fa il botto” e allora arrivano qui.
In questo reparto anche il lavoro dell’infermiere è diverso. Potete raccontare?
Norma. Mio marito a volte mi dice provocatoriamente: "Ma tu non lavori mai!”. In effetti non tutti gli infermieri "perdono tempo” a parlare con i pazienti, molti hanno paura e si limitano a stare seduti, questo purtroppo è vero. Ma se invece lavori, cioè parli, allora è diverso.
Giuseppe. I colleghi degli altri reparti ci dicono: "Ma voi cosa fate? State sempre seduti. Non fate niente”. Qui, a differenza degli altri reparti, dove è tutta tecnica, il 70% del lavoro di un infermiere è parlare. Ma parlare è usurante. Riuscire a capire cosa dire, e soprattutto saper ascoltare il delirio, è dura. Qui arrivano persone che nessuno ascolta più. I genitori a casa non ne possono più. In strada se qualcuno delira ci voltiamo tutti dall’altra parte e invece loro hanno bisogno di essere ascoltati. Ma ascoltare è un grande impegno, proprio emotivo.
Spesso noi chiediamo ai medici di aiutarci, perché anche noi abbiamo bisogno di parlare di ciò che vediamo. Ma loro hanno turni molto serrati. Insomma, non c’è tempo e non ci sono risorse. Ciò di ...[continua]

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