Louisette Ighilahriz, nata a Oudja in Marocco il 22 agosto 1936, in una famiglia originaria della Cabilia e molto impegnata nella lotta nazionalista algerina, a vent’anni, ancora studentessa, entra a far parte del Fronte di Liberazione Nazionale della Zona autonoma di Algeri, con il nome di "Lila”. Il 28 settembre 1957 a Chébli, nella Wilaya IV, viene catturata in un’imboscata a fianco del suo responsabile di rete, Saïd Bakel, in cui viene gravemente ferita e, in seguito, trasferita nella sede dello Stato Maggiore della Decima Divisione Paracadutisti del Generale Massu a Hydra, dove sarà violentata e torturata. Psicologa di formazione e professione, è stata decorata a più riprese dalle più alte e importanti autorità del suo paese per la sua partecipazione all’indipendenza dell’Algeria. Oggi vive ad Algeri.
Nel 2001, in collaborazione con Anne Nivat, ha pubblicato Torturée par l’Armée française per le edizioni francesi Fayard, un libro-testimonianza che ha riaperto il dibattito sulla tortura durante la Guerra d’Algeria, ripubblicato nel 2006 dalla casa editrice algerina La Casbah con il titolo di Algérienne. Questa intervista è stata realizzata a Torino grazie alla collaborazione di Maria Paola Palladino, autrice della tesi di laurea dal titolo "Louisette Ighilahriz. Memorie e silenzi sulla partecipazione delle donne alla guerra di indipendenza algerina 1954-1962” e presidente dell’Associazione di volontariato italo-algerina Jawhara.

L’impegno politico è qualcosa che ho ereditato dalla mia famiglia: mio nonno già prima del ‘45 si era ritirato nelle montagne e produceva polvere di cannone in vista di una rivoluzione; anche mia madre e mio padre erano impegnati da sempre per la causa algerina. Fin da bambina mi avevano spiegato che l’Algeria era colonizzata e che un giorno avremmo dovuto combattere contro questo regime.
Questa è l’aria che ho respirato. Per me era la normalità: io sapevo da sempre che sarebbe venuto un giorno in cui avremmo dovuto prendere le armi e dire: "Grazie Francia, ma ora torna a casa tua, lasciaci in pace”.
La nostra condizione, d’altra parte, non era tollerabile: noi algerini non eravamo stranieri perché eravamo francesi, e tuttavia sul piano giuridico non avevamo gli stessi diritti dei francesi; non potevamo neanche essere considerati una popolazione colonizzata perché l’Algeria faceva parte dell’impero coloniale. Insomma, non eravamo stranieri, non eravamo francesi, non avevamo uno statuto giuridico. Eravamo delle marionette adatte solo a lavorare, niente di più. Anche nel quotidiano noi "musulmani francesi” eravamo discriminati: chi riusciva ad andare all’università, non poteva poi accedere a tutta una serie di posti: la Marina ci era proibita e così molte altre carriere. L’ascesa sociale dei pochi che andavano avanti con gli studi a un certo punto veniva bloccata. Qualcuno motivava questo atteggiamento spiegando che il nostro cervello non era fatto per lo studio.
Per tutto questo ci siamo ribellati.

Per me la data d’inizio di tutto è l’8 maggio del 1945, è il massacro di Sétif. Durante la guerra gli algerini avevano combattuto a fianco dei francesi per sconfiggere i tedeschi. All’epoca la Francia ci aveva promesso che, se l’avessimo aiutata, avremmo avuto in cambio, come minimo, l’autonomia. Ma così non fu, la promessa non venne mantenuta e l’8 maggio del ‘45, mentre la Francia festeggiava la vittoria, la sua vittoria, la sua liberazione, noi ci trovammo con niente in mano. Di qui le manifestazioni pacifiche di Sétif, Kherrata e Guelma, poi finite in un bagno di sangue. A quel punto ci siamo detti: "Va bene, abbiamo capito”.
Ci abbiamo messo dieci anni, ma il primo novembre del 1954 siamo insorti.
Un’altra cosa da considerare è che sei mesi prima, in Indocina, la Francia era stata sconfitta a Dien Bien Phu. I militari francesi che arrivarono in Algeria erano quindi pieni di astio, e riversarono il loro odio, la loro brutalità, la loro rabbia contro gli algerini. All’origine dell’enormità della violenza contro di noi c’era anche la frustrazione per quella sconfitta, per quell’umiliazione. Dopo aver perso Dien Bien Phu, non avevano la minima intenzione di perdere anche Algeri. Arrivarono in Algeria al grido di "Non ci sarà un secondo Dien Bien Phu”.
Dall’Indocina portarono anche la tortura sistematica e i massacri.

Da ragazza la mia partecipazione alla lotta di liberazione consisteva nel trasportare documenti, medicinali, armi anche; una donna poteva pass ...[continua]

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