Alberto Cavaglion è insegnante a Torino. Ha curato per la Loescher una guida scolastica alla lettura di Se questo è un uomo.

Il concetto di unicità riferito alla Shoah resta molto controverso. Se da una parte c’è il rischio di ridurre Auschwitz a un orrore fra gli altri, dall’altra c’è quello di portare Auschwitz fuori dalla storia impedendo ogni comparazione. Cosa ne pensava Primo Levi?
Primo Levi sosteneva con grande nettezza che Auschwitz fosse un unicum, ma sosteneva anche che si potevano fare paragoni. Per lui l’unicità non escludeva la comparabilità. Non solo: anche considerare Auschwitz un unicum, non voleva dire collocarlo al di fuori della storia. Qualsiasi forma di liturgia, di ricordo fine a se stesso, di una memoria ripiegata su se stessa, era assolutamente fuori dal suo orizzonte. Così come gli era del tutto aliena l’idea che l’intellettuale fosse una specie di vate o di profeta. Però, pur ammettendo la comparabilità, poneva Auschwitz a un livello diverso, sia da un punto di vista qualitativo che da un punto di vista quantitativo.
Il rischio è che, in questo modo, il confronto non faccia che enfatizzare l’unicità.
Tuttavia, ne I sommersi e i salvati c’è, però, un accenno alla Cambogia di Pol Pot...
Ma anche il riferimento alla Cambogia, alla fine, mette in evidenza ancora l’unicità. Si tratta comunque di un genocidio perseguito, al pari dello sterminio stalinista dei kulaki e di tutti gli altri perpetrati nel XX secolo, non già per scopi razziali, per quegli scopi, cioè, che secondo Primo Levi caratterizzano l’unicum di Auschwitz, ma per un progetto politico, aberrante finché si vuole, volto comunque a eliminare degli oppositori politici o dei nemici. Ovviamente, dal punto di vista delle vittime non fa molta differenza morire per effetto dello stalinismo o dell’hitlerismo, però, secondo lui, la differenza stava nel fatto che si trattava di un progetto politico che non aveva come obiettivo la cancellazione dalla faccia della terra di una categoria particolare di persone per il solo fatto di essere nate.
Ciononostante Primo Levi era attentissimo all’attualità…
Malgrado non avesse alcuna dimestichezza con i mezzi di comunicazione di massa -e malgrado fosse risaputo che, davanti alle telecamere o alla presentazione dei libri, desse risposte spesso monosillabiche-, veniva continuamente interpellato su tutte le questioni che con l’ebraismo e con la seconda guerra mondiale avevano un’attinenza anche molto vaga. Non si è mai tirato indietro neppure di fronte alle mostruosità che si dicevano, da una parte e dall’altra, sulla controversa questione mediorientale: era disposto a discutere con chi, in occasione della guerra nel Libano del 1982, diceva che Begin era una specie di Hitler del Medio Oriente e, per altro verso, era estremamente lucido nel denunciare le mostruosità di un certo integralismo israeliano religioso per il quale i confini della Guerra dei Sei giorni erano stati segnati da Auschwitz. Primo Levi era lucidissimo nel denunciare le degenerazioni della propaganda dell’ideologia da qualunque parte venissero.
Rispetto alle tesi revisionistiche che posizione assunse?
Lui ha vissuto la fase aurorale del revisionismo. Le sue reazioni nel 1987 sono un po’ automatiche, di diffidenza assoluta e di paura, però il revisionismo che lui ha davanti agli occhi nel 1986-87 è quello di Faurisson. Essendo mancato nel 1987, non ha fatto in tempo a seguire né gli sviluppi drammatici del revisionismo e dialogare con le posizioni di chi, come Vidal Naquet, ha combattuto le tesi revisioniste né ha potuto confrontarsi con l’esame di coscienza fatto dagli storici tedeschi negli ultimi anni. Oggi, in Francia soprattutto, il dibattito è andato molto avanti, per esempio riguardo al confronto tra il gulag e il lager.
Primo Levi lo interpreta in assenza di tutta una serie di studi, non solo quelli di Nolte, il più incriminato di tutti, ma anche dell’ultimo Furet, su cui sarebbe interessante conoscere il suo parere.
Su questi temi i testi di Primo Levi cui si fa solitamente riferimento sono gli ultimi: oltre a I sommersi e i salvati, l’introduzione a La vita offesa, l’antologia di deportati piemontesi curata dall’Aned, l’Associazione nazionale ex-deportati, di Anna Bravo e Daniele Jalla. E poi il brevissimo corsivo su La Stampa, oggi antologizzato da tutte le parti, che si intitola Buco nero ad Auschwitz, che Primo Levi scrisse a poche settimane dalla morte: un grido d’allarme che però ha ancora qu ...[continua]

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