Lo scritto che segue costituisce il testo della relazione presentata da Vandana Shiva a Forlimpopoli (Forlì), il 22 giugno 2003, in occasione del conferimento del Premio Artusi , che le è stato assegnato per l’impegno con cui da anni si batte a favore dell’ambiente e a difesa delle colture locali e della biodiversità. Fra i frutti della sua attività c’è il Navdanya Conservation Farm, creato per la conservazione e la tutela della grande ricchezza degli agricoltori del Sud del mondo: la biodiversità agricola. Oggi la sua battaglia continua e ha allargato il suo campo di azione verso altri settori, come la difesa della proprietà intellettuale, l’emancipazione delle donne nei paesi in via di sviluppo, la lotta contro la pirateria genetica.

Da qualche anno mi occupo di biodiversità. Io in realtà ho una formazione fisica e occuparmi della biodiversità non era quello che pensavo di fare da ragazza. In realtà quando avevo vent’anni ero innamorata della fisica e della teoria dei quanti, questioni diverse rispetto a quelle di cui mi occupo attualmente. Ho dovuto interrompere questa “storia d’amore” con i quanti per un’altro “amore”, quello, che spero tutti condividiamo, per la vita sulla terra.
Le prime persone ad insegnarmi il valore della terra e della biodiversità sono state le donne del mio villaggio sull’Himalaya. Più in particolare, qualche tempo fa, mentre le foreste del mio paese -che erano popolate da centinaia di specie diverse- venivano distrutte per creare delle immense pinete, le donne del mio villaggio andarono in queste foreste e abbracciarono gli alberi opponendosi in tal modo a questo processo. Esse affermavano con tenacia: “Non permetteremo che questo accada”. Immediatamente mi accorsi che quelle donne che non erano mai state a scuola o, perlomeno, non in una scuola istituzionale dove ti insegnano a leggere e scrivere, erano però state alla scuola della natura, avevano imparato a conoscere ogni singola specie che esisteva nelle nostre foreste e soprattutto erano consapevoli di quello che succedeva all’interno di queste: per esempio, sapevano come conservare tali specie, anche nei periodi in cui alluvioni incredibili distruggevano tutto. Conoscevano tutti i fenomeni che avvenivano nelle foreste.
I miei primi studi sono stati dedicati a trovare una spiegazione, una giustificazione, a qualcosa che già si sapeva. Ovvero che da un punto di vista biologico ed ecologico, quelle foreste erano altamente più produttive delle coltivazioni artificiali di pini e di eucalipti e che quel processo di “trapianto” avrebbe impoverito quelle foreste. Ciò che apparentemente rendeva le coltivazioni artificiali più produttive era il fatto che i prodotti della foresta non erano commerciabili sul mercato del legno. Mi ricordo di ufficiali del corpo forestale che mi spiegavano che il problema delle querce presenti nella foresta era che non erano buone per la cucina, non era un legno buono da bruciare. Invece, quegli stessi alberi erano fondamentali perché con le loro foglie davano da mangiare al bestiame, e poi perché filtravano l’acqua permettendole di infiltrarsi nell’humus del terreno, preservando maggiori riserve nel corso del tempo.
Mi resi subito conto che i problemi principali per quelle persone, cresciute e istruite con una mentalità di tipo cartesiana, erano due. Il primo problema è quello che io chiamo monocultura della mente: queste persone sono abituate a considerare, a vedere, un unico aspetto alla volta, mentre la natura ci ha attrezzati per vedere centinaia di migliaia di cose contemporaneamente. Un secondo problema, strettamente correlato a questo, è proprio quello della linearità: infatti, solo una linea può essere realmente misurata; nella mentalità cartesiana c’è questa idea pazza, folle, che solo ciò che può essere misurato ha realmente un valore, esiste veramente. Ma tutti sappiamo, e lo sappiamo da secoli, che non solo ciò che riusciamo a misurare è conoscibile; noi conosciamo attraverso tutti i nostri sensi: attraverso il gusto, attraverso il tatto, attraverso la vista. Ci sono migliaia di modi in cui noi arriviamo a conoscere quello che ci circonda, non solo misurando.

La monocultura della mente, basata esclusivamente sulla linearità, ha creato solo un mondo della quantità. Eppure in questo mondo, anche dal punto di vista dei suoi criteri, comunque qualcosa non torna. In un mondo così isolato ciò che è meno può apparire più e ciò che è più può apparire meno. Un esempio di quest ...[continua]

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