Adriana Montini è nata a Verona, oggi vive a Tuoro sul Trasimeno.

Il 20 gennaio 1960 arrivai a Genova, all’Istituto di Fisica, per fare ricerca nel campo delle particelle nucleari con il microscopio; era un metodo faticoso e lento, ma estremamente efficace. Una buona parte del mio lavoro consisteva anche nell’insegnare fisica di laboratorio ai giovani del biennio di Ingegneria; ero molto felice con loro. Genova mi piaceva molto. Quando avevo tempo libero dall’Istituto, dove trascorrevo un gran numero di ore, andavo a camminare nei carruggi, le stradine dell’angiporto, ed ero affascinata dalle navi che, in gran numero, erano al largo in attesa del permesso e dell’arrivo del capitano del porto per entrare. Mi affascinava anche la gente, molti erano abbronzati e bruciati dal sole, il loro linguaggio era aspro, duro.
In maggio conobbi Gino alla Casa del Popolo, ad un convegno sui problemi del porto. Gino era con due amici, un giovane socialista assistente all’Istituto di Storia Moderna ed un portuale. La sua intelligenza così brillante mi colpì molto quando fece una quasi controrelazione al relatore ufficiale, con una sicurezza e una competenza che mi sembrarono incredibili. lo ero andata con un’amica che studiava matematica; lei li conosceva e, dopo il convegno, ci fermammo a discutere. Ci fu uno scontro tra me e Gino. Lui era un giovane socialista libertario, un po’ anarchico, un po’ trotzkista, terribilmente sicuro e arrogante; io ero una sorta di comunista veneta, idealista ed ingenua; ero legatissima alla mia famiglia di antifascisti e di partigiani. Gino mi accusava di tutto: di ignoranza degli eventi, ed aveva in gran parte ragione; di falsità di credenze, ed aveva torto. Mi difesero un po’ i due amici. Ci lasciammo bruscamente. Lo rividi un paio di mesi dopo, durante i fatti di Genova contro la proposta del governo Tambroni di tenere in città il primo convegno nazionale del Msi.
Genova era stata l’unica città italiana a liberarsi da sola, e un’intera armata germanica si era arresa ai partigiani prima dell’arrivo degli anglo-americani.
La citta si sentì come offesa, e anche le persone moderate scesero in piazza contro la proposta.
Io andai con degli assistenti di Fisica e di Chimica, molti di sinistra, e con giovani di Ingegneria. Gino mi vide nel gruppo, arrivò trafelato, mi prese per un braccio e mi tirò oltre per andare ad incontrare portuali, anarchici e partigiani, scesi dai Giovi, nella loro sede nei carruggi.
I giorni seguenti furono veramente come Gino li descrive nell’articolo pubblicato nel gennaio 1961 su Tempo Presente. La rivolta e la partecipazione di tutta la popolazione genovese, almeno per diversi giorni, fu spontanea, caotica, forte. II centro della città era circondato da filo spinato e controllato dalla polizia, in assetto di guerra, divise mimetizzate, casco, mitraglietta; Genova, così, non l’avevo vista mai, e credo che una cosa del genere accadesse per la prima volta in una grande città del Nord. La gente non mollava. Operai, portuali, studenti e altri cittadini, inseguiti dalla polizia che voleva far valere l’ordine ricevuto, fuggivano nei carruggi da un lato della grande piazza De Ferrari e risalivano da un altro, poco dopo. Non si lasciarono distogliere nemmeno dal segretario dell’Anpi di Genova e dai capi socialisti e comunisti che incoraggiavano tutti ad abbandonare la piazza e tomare a casa. Mai avevo visto nel mio Veneto una combattività come quella. Sabato sera, poche ore prima dell’apertura del convegno, stabilito per la domenica mattina alle dieci al teatro Margherita, arrivò l’annuncio da Roma che il convegno era stato abolito. La gioia era grande per molti; per Genova fu una vittoria, senza spargimento di sangue. Nei giorni seguenti altre città italiane non furono così fortunate; la polizia sparò, e ci furono morti in piazza.
II governo Tambroni cadde. Ormai uscivo spesso la sera con Gino; visitavamo la Genova antica, il centro storico, il porto. Andavo spesso a riunioni con lui, per lo più di socialisti libertari; incontravamo molta gente.
Gino era un eccellente cicerone e conversatore, e mi parlava della città, dei suoi viaggi per mare, quando era molto giovane, dei suoi studi solitari che occupavano gran parte della giornata, delle sue ricerche sull’avvento del fascismo nel genovesano, sul movimento anarchico nella Lunigiana, a Sarzana, delle opposizioni nell’Unione Sovietica.
A volte raccontavo io della mia ricerca nella fisica nucleare, ma chiaramente lui non era interessato più di tanto, preferiva che gli parlassi dell’ambiente universitario, di chi ci lavorava.
Ad agosto facemmo un viaggio in treno in Spagna, niente cuccette, niente vagone ristorante, nessun lusso, fino a Barcellona, portando con noi dei manifestini antifranchisti. A Barcellona incontrammo degli oppositori di Franco. Ricordo un certo Ararat, appena uscito dal carcere, ma i vari giri intorno alla città per sfuggire ad un possibile pedinamento della Guardia Civil, mista ad una certa paura per quel che facevamo, mi hanno lasciato un ricordo un po’ confuso e sbiadito.
Io e Gino ci sposammo pochi mesi dopo, ed avemmo tre bambini in meno di cinque anni, due bimbe ed un maschietto, bellissimi.
Io proseguivo la ricerca e l’insegnamento con grande entusiasmo e soddisfazione, ero molto forte fisicamente e mentalmente e potevo lavorare molte ore. Tiravo su i miei figli con gioia. Gino si dava da fare come freelance, occupava molto del suo tempo nella lettura e negli studi. A volte scriveva qualche articolo per Il Lavoro, il quotidiano socialista di Genova, di cui era direttore Sandro Pertini; invero il giornale era fatto completamente da Francesco Fancello.
Fancello era di Giustizia e Libertà, era stato un antifascista coerente, antiviolento, ed aveva fatto molti anni di carcere e di confino dove, tra molti altri, era diventato amico di Pippo Pianezza. Era molto amico di Nicola Chiaro-monte, anche della sorella Pina e di tutta la famiglia; era stato amico di Caffi.
Questi nomi cominciarono a circolare molto spesso nei nostri incontri e nelle nostre conversazioni. Fancello voleva bene a Gino, ammirava la sua intelligenza e la sua libertà di spirito, ma conosceva quanto lui fosse dispersivo e distruttivo, e cercava di proteggerlo. Una domenica io, Gino, Fancello e la nostra prima bimba di un anno andammo sui Giovi, le aspre colline che circondano Genova, a trovare Pippo Pianezza. Pianezza era commovente per la sua bontà. Era allora un uomo ormai anziano. Aveva partecipato giovanissimo al Biennio Rosso, a Torino; con Gramsci aveva partecipato alla scissione all’interno dei socialisti e alla fondazione del Partito Comunista, si era fatto un gran numero di anni di carcere e di confino, soprattutto a Ventotene, aveva conosciuto tutta la leadership della sinistra e sapeva distinguere gli uomini; ti raccontava come in carcere chi si era opposto all’accordo Hitler-Stalin venisse emarginato e lasciato in uno stato di angoscia profonda. Sui Giovi lavorava come guardiano di magazzini di materiale del porto. La sua casa era una baracca di legno, viveva completamente solo, unico compagno un cane bastardino. In città aveva degli amici carissimi, una cugina col marito, entrambi operai, che lo avevano sempre sostenuto nei lunghi anni di prigione e di confino. Noi gli abbiamo voluto molto bene. Quando Pippo morì, nell’inverno del 1964, se non ricordo male, la sinistra tutta lo ignorò. Gino scrisse su di lui, sulla sua vita, un bell’articolo.
Nella primavera del 1961 io e Gino andammo a Roma, lui doveva fare un po’ di ricerca sul movimento anarchico negli Archivi di Stato, io passare qualche ora all’Istituto di Fisica per vedere come organizzavano a Roma i laboratori per gli studenti; erano più o meno come a Genova.
Andammo a trovare Nicola Chiaromonte. Tra i pezzetti di carta che Gino ha lasciato sparsi tra i vari suoi scritti c’è questo: “Sul mio legame con N. Ch. A metà degli anni 50, poco più che ventenne, ero trotzkista e questo suscitò in Ch. un interesse immediato - Nel mio piccolo ero anch’io un eretico e questo lo dispose subito favorevolmente. Naturalmente leggevo il Mondo ed ero un suo ammiratore. Nel 1956 gli scrissi e gli chiesi di incontrarlo. Mi incoraggiò a collaborare a T.P. Altre circostanze che favorirono il nostro legame:
1 Ero allievo di Franco Venturi
2 Facevo le mie prime esperienze giornalistiche al Lavoro di Genova, diretto formalmente da Pertini, di fatto da Francesco Fancello (legato a Morra, militante di G.L. finito in carcere con Ernesto Rossi) che Ch. conosceva.
3 II mio lavoro nei primi anni 60, come redattore a Critica Sociale diretta da Faravelli, un altro amico di Ch. fin dagli anni dell’esilio”.

Gino mi presentò a lui, a sua moglie Miriam ed alla sorella Pina, donna dolcissima che nella guerra era stata partigiana a Roma. Li vedemmo ancora negli anni seguenti, a Roma, a Bocca di Magra nell’estate, anni dopo a Londra. Durante queste visite incontravamo sempre delle belle persone, intellettuali di grande onestà e di grande indipendenza di pensiero, Tagliacozzo, Paolo Milano, Mary McCarthy, la vedova di Camus ed altri loro amici americani; a Bocca di Magra si incontrava spesso Mario Levi, che aveva con Nicola un rapporto molto intenso. Lo ascoltavo molto, ero affascinata, contenta di stare con loro, soprattutto con Pina e con Nicola che con me amava parlare di matematica. Gino sapeva che io gli avevo perdonato molti suoi comportamenti inaccettabili, negli anni seguenti, perché mi aveva fatto conoscere ed amare Nicola e Pippo.
Intanto Gino studiava storia del Socialismo, del movimento anarchico, delle opposizioni interne all’Urss, non solo quelle storiche; cercava di sapere quello che succedeva allora; collaborava a diverse riviste e al Lavoro. Fu nel 1962 che andò a Milano come redattore di Critica Sociale; era direttore Giuseppe Faravelli, uomo apparentemente burbero, con grande dedizione al Socialismo e all’idea di libertà, uomo di grande coraggio nella guerra.
Cominciò per me un periodo difficile. Gino mi voleva con lui, ma io non volevo lasciare il mio lavoro, che amavo e mi dava molte soddisfazioni; poi avevamo due bellissime bambine e pochi soldi.
Mi spostavo tra le due città con una certa confusione. Nei periodi in cui vissi a Milano, Gino mi presentò Giulio Seniga e la sua compagna Anita Galiussi, e diventammo veri amici. Seniga aveva lottato all’interno del Partito Comunista per una maggiore democrazia, per una maggiore circolazione delle idee, e per avere chiarezza sul mondo dell’Est e sull’Unione Sovietica; era a conoscenza di molte cose perché Anita era cresciuta in Urss come figlia di un comunista italiano che là, come tanti provenienti da altri paesi oppressi dal nazi-fascismo, avevano cercato rifugio e sicurezza; sappiamo quanti di loro piuttosto trovarono persecuzione e morte.
Anita Galiussi ha descritto la sua vita di ragazza in Urss e l’incontro con tutti i figli della leadership comunista d’Europa nel suo libro I figli del Partito, pubblicato in Italia nel 1966.
Quando Seniga capì che la sua impresa era impossibile, se ne andò con molti soldi del partito.
Si parlava molto male di lui. In verità usò i soldi per fondare una piccola casa editrice libertaria, “Azione Comune”, con cui pubblicò libri che non avevano nessuna possibilità all’interno della Sinistra e, ovviamente, della Destra; fu antistalinismo e antisocialismo realizzato, come allora si chiamava, per le ragioni giuste, come direbbero gli inglesi.
Seniga aiutò anche i personaggi più strani, come un deputato inglese della Sinistra Laburista, di Liverpool, ed il “general Campesino”, Gonzales, reduce della guerra civile spagnola.
Del resto lui, Anita ed il loro bambino vivevano come operai. Ho di loro un ricordo bellissimo.
Fu in questo periodo, all’inizio dell’autunno del 1963, che Valentin Gonzales, il Campesino di cui anche Hemingway ci ha dato un ritratto affascinante, arrivò a Milano, espulso dalla Francia al tempo in cui De Gaulle, afflitto da grossi problemi con l’Algeria, cedendo ai ricatti dei generali e della destra estrema, aveva fatto dei patti speciali col dittatore Franco. Il Campesino fu aiutato dal Partito socialista, attraverso Critica Sociale, ad ottenere un permesso di soggiorno. Io ero tornata a Genova per la nascita della mia seconda figlia; vi rimasi per riuscire a continuare il mio lavoro all’università, così Faravelli e Valiani proposero a Gino di ospitare il Campesino. Lo ospitò per molti mesi in un abbaino gelido che guardava sui tetti di Milano; Valentin scherzosamente diceva che nemmeno in Siberia aveva sentito tanto freddo.
Mancava di tutto e, economicamente, lo aiutava Seniga. Una volta al mese doveva presentarsi alla Stazione di Polizia; Gino spesso andava con lui, ne era l’immediato garante. A volte mi raccontava come di notte il Campesino avesse incubi tremendi in cui ricordava tutte le enormi tragedie della sua vita: la sua terra da tanti anni in mano a Franco, i Gulag russi, la sua incredibile fuga da Vorkouta, l’inferno gelido della Siberia del Nord, la fuga attraverso mezza Asia e l’arrivo alla frontiera iraniana, poi in Turchia e finalmente a Berlino dove né l’Intelligence Anglo-Americana, né i Tedeschi, né altri, lo riconobbero, e pensarono che la storia che raccontava fosse assolutamente impossibile; fu considerato un pazzo.
Il Campesino ci raccontò di aver salvato la vita a Julian Gorkin, socialista libertario nella guerra civile spagnola condannato a morte dai comunisti nel 1937, e che se Julian era ancora vivo in Argentina, la sua terra, lui lo avrebbe riconosciuto. E così accadde: Gorkin, infatti, apparteneva alla “Asociacion Argentina por la Libertad de la Cultura” ed era un intellettuale molto conosciuto in tutta l’America Latina. Fu fatto venire a Berlino, si riconobbero con un abbraccio forte, le lacrime agli occhi. A Milano il Campesino era molto solo, soprattutto di giorno; Gino lavorava a Critica Sociale e ben pochi lo andavano a trovare.
Una volta venne Nicola da Roma e si incontrarono, poi andammo tutti a cena: Nicola rimase affascinato da questa vera forza della natura che gli ricordò il periodo da lui trascorso nella guerra civile spagnola come pilota nella squadriglia aerea di Malraux; parlarono della Spagna e dell’Urss. Anni dopo, a Londra, Nicola accennò a questo incontro con commozione e gioia. Il Campesino trascorse con noi, a Genova, il Natale del 1963, giocando con dolcezza e piacere con Vera, che allora aveva due anni e mezzo, mentre io tenevo in braccio Miriam, di sei mesi. Qualche tempo dopo gli fu tolto il divieto di soggiorno in Francia e ritornò in quel paese che era ormai un po’ il suo. Noi non lo vedemmo mai più, anche perché qualche tempo dopo emigrammo in Inghilterra. Alla morte di Franco, il Campesino rientrò in Spagna, dove ritrovò la sua vecchia moglie, persa nel 1938. Le Nouvelle Observateur scrisse un lunghissimo articolo su di lui e Gino, da Londra, nel luglio del 1980, scrisse un simpatico articolo: “Il Campesino profugo a Milano”. Nel 1983, quando morì, Montanelli scrisse un breve articolo su di lui, sul Giornale; non so se altri, in Italia, parlarono della sua vita o della sua morte.
Il Campesino ha lasciato un libro eccezionale La vie et la mort en Urss (1939-1949), pubblicato a Parigi nel 1950, con l’introduzione di Julian Gorkin, completamente ignorato. Poco tempo dopo Gino andò a lavorare al Ceses, centro studi del mondo dell’Est, con Carlo Ripa di Meana, direttore Renato Mieli. Si occupava della parte storica contemporanea. Finalmente guadagnava bene, ma non durò molto a lungo. E come avrebbe potuto? La Confindustria finanziava, in parte, l’impresa, ed intendeva esercitare il suo controllo: anticomunismo per le cattive ragioni.
E così Carlo e Gino decisero di lasciare, o forse furono licenziati, non so bene. Gino aveva lentamente maturato dentro di sé, credo, una grande evoluzione rispetto al suo atteggiamento un po’ anarcoide, senza tuttavia respingere gli ideali dell’anarchia che si possono trovare in Proudhon ed in Herzen, in un atteggiamento di socialismo libertario e democratico, grazie anche allo scambio di idee sempre più intenso con Chiaromonte, e le letture ininterrotte di tutto ciò che si poteva trovare su Andrea Caffi.
A Genova aveva cercato di trasmettere queste idee, e di influenzare in senso libertario democratico alcuni gruppi in cui serpeggiavano tendenze estremiste tra i giovani, spesso accompagnate da superficialità culturale, soprattutto nelle università. D’altra parte iniziava l’epoca del miracolo economico, con i suoi aspetti positivi nell’aumentato benessere per i più, ma anche con la predominanza data al valore economico a scapito dei valori ideali. Gino e Carlo Ripa di Meana pensarono ad una esperienza a Londra, o almeno Gino ci pensò seriamente; Meana rientrò pochi mesi dopo.

La sera del capodanno del 1965, mentre passeggiavamo per i carruggi di Genova, Gino mi parlò di questa sua nuova decisione. Presentò la cosa a modo suo, mi ricattò un poco chiedendomi se fossi una fanatica della carriera, aggiungendo che con la mia intelligenza avrei sempre potuto ricominciare più tardi; aggiunse anche che Nicola ci incoraggiava a fare un’esperienza in un paese democratico e che non ci fosse scelta migliore di Londra; il che era vero, anche se Nicola era alquanto preoccupato per noi. Io ero in attesa del mio terzo figlio e, un pò spaventata, pur acconsentendo, insistetti per posporre la partenza.
Un mese e mezzo dopo Gino era a Londra dove, a parte una qualche collaborazione con Critica Sociale e la Fiera Letteraria, sperava di ottenere dei finanziamenti dal Ceses per studi e rapporti sul mondo dell’Est che sarebbero stati meno censurabili. Non arrivarono mai.
Poco tempo dopo nacque un maschietto, sano, felice, intelligente.
Io lasciai il mio insegnamento e la ricerca, che tanto amavo. Mi era costato anni di studio duro e di privazioni, anche alla mia famiglia.
Il sette luglio portai i bambini a Boccadasse, una bellissima zona di Genova al bordo del mare, dove brillava un sole sfolgorante; eravamo felici. Il dieci luglio partii dalla stazione Principe per Londra con tre bambini ed una ragazza italiana che mi avrebbe potuto aiutare; avevo promesso a sua madre di proteggerla, di seguirla e di farla studiare. E così eravamo emigranti, per scelta, ma pur sempre emigranti. II viaggio era fatto come a blocchi.
Sicuramente fu un viaggio molto più decente, anche più corto, trenta ore che a me parvero interminabili, ma in qualche modo questo viaggio mi ha sempre ricordato quello dei nostri emigranti all’inizio del Novecento.
I treni erano pienissimi, non c’erano prenotazioni, si spingeva, ci si faceva posto come si poteva. A Calais tutti noi, già abbastanza affaticati, prendemmo la nave traghetto per Dover. La nave era carica di emigranti italiani che ritornavano in Inghilterra dopo una vacanza nella loro vecchia terra. Poco dopo annunciarono il controllo dei passaporti. Io non parlavo inglese, conoscevo solo poche parole scientifiche. I funzionari inglesi erano seri, gentili, duri, un po’ impazienti con chi non parlava la loro lingua. Non sapevo completare i moduli. Improvvisamente ero un’analfabeta. Esperienza penosissima. Rimasi in fila per più di due ore, col neonato tra le braccia che ormai cominciava a piagnucolare per la fame, ero talmente confusa e vergognosa che non osavo allattarlo; le due bambine erano strette vicino a me ed alla nostra ragazza.
Arrivammo finalmente a Londra; alla stazione Vittoria ci aspettava Gino. Stretti tutti dentro un taxi nero attraversammo la città, da Victoria Station fino ad Highgate nella parte nord della città. Sapevo pochissimo di Londra. Era una grande città, fino ad anni recenti capitale dell’Impero Britannico; sapevo che c’erano boschi e parchi meravigliosi. Avevo pregato Gino di trovare una dimora modesta, anche trasandata, ma vicino a un parco; Gino ci era riuscito.
Avevamo un appartamento con giardinetto, a piano terra. Si riscaldava con un paio di stufette a paraffina; finestre piene di fessure e tappeti completamente lisi e polverosi. D’inverno faceva molto freddo, ma a cento metri c’era il bosco di Highgate, con i giochi dei bambini; a un quarto d’ora a piedi c’era il parco di Waterloo, noto perché confinava col cimitero di Highgate, uno dei più antichi di Londra. Qui erano sepolti scrittori, esploratori e grandi scienziati, come Faraday; ma ciò che più colpiva i nostri vari visitatori, nel corso degli anni, era la tomba di Carlo Marx, un enorme blocco in pietra sovrastato da una testa impressionante. Sopra era scritto “Workers of the world unite”. C’era intorno alla tomba un pellegrinaggio da tutto il mondo; un po’ alla volta diminuì.
Gino aveva avuto la casa di Highgate da Mr. First attraverso un annuncio sul New State­ment. Mr. First era comunista, membro del club più piccolo di Londra, ed aveva trascorso tutta la sua vita in Sud Africa. Ormai anziano era ritornato a Londra, ma a Johannesburg era rimasta sua figlia, professoressa di inglese all’università e molto attiva contro l’apartheid. Pochi anni dopo fu assassinata dai razzisti all’interno dell’università stessa. Questa notizia ci aveva colpito profondamente. Si continuava a scoprire con quanta crudeltà si difendessero i privilegi e quanto c’era ancora da fare; questo aumentò il mio legame profondo con Londra e i suoi abitanti. C’era qui gente da ogni parte del mondo, con storie uniche, incredibili. Highgate era una zona a forte impronta laburista e di sinistra. C’era anche, affacciato su uno dei laghetti di Hampstead, così vicino a noi, il centro commerciale russo. Edward Heath, il primo ministro inglese nei primi anni Settanta espulse come spie, in un sol colpo, centoquattro funzionari. In Highgate abitò anche per un certo tempo Melvin Laski, il direttore di Encounter e, non lontano, Leo Labetz, direttore di Survey. C’era anche un centro di Mennoniti, gli Amesh riformati a cui mi legai molto: mi aiutarono negli anni bui della mia vita.
All’inizio Gino non aveva nessun lavoro preciso, qualche collaborazione a riviste e giornali italiani, molti incontri e riunioni all’Internazionale Socialista, di cui il Partito Socialista Italiano non era ancora membro; Gino si adoperò molto per il suo inserimento nell’Internazionale. II primo settembre iniziai il mio lavoro all’Imperial College come tecnica di laboratorio nel dipartimento in cui, a Genova, avevo fatto ricerca; quattro ore al giorno al proiettore alla ricerca di interazioni nucleari, a misurare la lunghezza delle tracce e la loro inclinazione. Tutto come il lavoro al microscopio, solo più semplice; non potevo sbagliare. Guadagnavo cinquanta sterline al mese, un bell’aiuto alla famiglia. Al mio rientro a casa, mandavo la ragazza a scuola, cucinavo, lavavo, imparavo l’inglese con i bambini e insegnavo loro l’italiano. Li portavo al parco a giocare.
Tutto procedeva molto in fretta, felicemente e faticosamente. Gino era spesso fuori, a Londra, a Dublino, a Roma, a Parigi, a Copenaghen e un po’ in tutta Europa, di solito per riunioni dell’Internazionale Socialista. Tutte le spese erano pagate, ma non c’era nessuna remunerazione.
Uno degli avvenimenti che ricordo con piacere nei nostri primi anni londinesi fu quello del primo maggio. Gli inglesi non lo festeggiavano; ma noi, per diversi anni, fummo invitati dal governo polacco in esilio a Londra alla loro festa del primo maggio, nel loro antico club di Kensington. I relatori si alternavano sul palco per quasi tre ore. Si parlava solo polacco. C’erano solo polacchi, da tutta Inghilterra, a parte il compagno Gino Bianco e la moglie. Né io, né Gino conoscevamo la lingua, ma mentre io stavo silenziosa ed attenta, lui aveva l’occasione di incontrare, scambiare informazioni ed idee con tutta la Polonia in esilio. Alla fine era chiamato a parlare Gino, un poco in inglese e poi in italiano, su loro richiesta perché molti avevano combattuto in Italia, conoscevano e amavano l’Italia e la nostra lingua. Tra i battimano e l’entusiasmo generale Gino portava i suoi saluti ed auguri fraterni ed il sostegno del Partito Socialista Italiano. In queste occasioni c’era sempre Adam Ciolcoz, ormai anziano.
Era stato ministro nel primo governo polacco nell’immediato dopoguerra e nel 1948 era fuggito ed aveva trovato rifugio a Londra dove lavorava ai Servizi Esteri della Bbc per la Polonia e scriveva una storia del suo paese in cinque volumi. Era un uomo sensibile, gentile ed estremamente colto.
Ad un certo punto sembrò che Gino potesse trovare un buon lavoro, ed io lasciai il posto all’Imperial College. Furono mesi più tranquilli. Dedicavo tutte le mie forze ai bambini. Il venerdì pomeriggio molti genitori tenevano dei club nella scuola elementare: chi insegnava a cucinare; chi portava i ragazzini a visitare quella parte del nord di Londra dove vivevamo, e ne spiegava la storia; chi li portava nei parchi, a parlare di natura. Io feci dei club di scienza, di elettricità e un po’ di teoria della luce. I bambini cominciavano a inserirsi bene.

In quel periodo ebbi anche l’opportunità di seguire dei seminari di Storia e Filosofia della Scienza presso l’University College; ne ero molto contenta, era un campo che amavo, mi sentivo particolarmente preparata per quello studio. Pagai cinque sterline per tutto l’anno. Ai seminari partecipavano una ventina di giovani laureati in biologia, chimica, fisica e matematica, e alcuni professori. II professor Wilkinson era direttore dell’Istituto, poi c’era il dottor Landau, da Chicago, Paul Feyerabend, viennese, affascinante iconoclasta, rigoroso filosofo della scienza, laureato in Fisica, Matematica ed Astronomia. Parlava un italiano perfetto e si dedicava anche al Teatro e all’Opera. Negli anni Settanta il suo libro Contro il metodo creò una grande controversia sulla scienza e sul metodo scientifico, le sue regole e la sua funzione sociale nel mondo moderno. Nel 1987 pubblicò Addio alla ragione, una raccolta di saggi fra i quali uno su Galileo, “Galileo e la tirannia della verità”, di grandissimo valore e fascino, che ad una lettura superficiale poteva apparire uno scritto antimoderno e conservatore, mentre in verità anticipava di molti anni, con chiara e profonda consapevolezza, l’idea di una tecnologia scientifica, e di una ricerca spesso pilotata da interessi finanziari e politici non necessariamente favorevoli ad uno sviluppo armonioso della società. Non potrò mai dimenticare Irme Lakatos, uno dei maggiori filosofi della Matematica del Novecento.
Lakatos era ungherese, di famiglia ebrea, la madre e la nonna morirono ad Auschwitz. Dopo la guerra era diventato comunista e per un certo tempo fu alto funzionario del Ministero dell’educazione, ma nel Cinquanta fu arrestato come oppositore e scontò tre anni di carcere. Dopo la rivolta del 1956 era fuggito dall’Ungheria e così era arrivato a Londra. Divenne discepolo e sodale di Karl Popper.
Questo era il gruppo in cui, quasi per caso, mi ero imbattuta. Anch’io, un po’ ingenua, un po’ arrogante come possono essere i giovani frustrati, tenni un seminario su Galileo sulla traccia di alcune lezioni che avevo fatto a Genova, all’Istituto di Storia, nel 1965.
Dedicai ogni momento libero a prepararmi, molte ore dell’alba, quando tutto era silenzio. Dovevo parlare per venti minuti, seguiti poi dalla discussione. Credevo di aver fatto abbastanza bene, malgrado il mio inglese vergognoso; la discussione che ne seguì fu intensa, quasi aspra; non riuscivo a seguire il dibattito; mi trovai a disagio.
Il giovedì seguente, quando mi costrinsi ad andare a seguire il seminario su Newton, mi fu offerta la possibilità di iniziare un dottorato di ricerca in Storia e Filosofia della Scienza ed una possibile borsa di studio. Mentre tornavo a casa verso Highgate con la metropolitana trattenevo a stento la mia eccitazione e la mia gioia.
Non se ne fece niente perché ancora una volta avevamo bisogno di soldi, subito. Tre giorni dopo lavoravo come tecnica di chimica, part-time, in una scuola non lontana da noi. Questo fallimento mi lasciò un rimpianto profondo.
Intanto i tre bambini crescevano bene, tra la scuola, le tante attività nei parchi ed in piscina e le visite ai musei. Portavo i bambini spesso a teatro per la grande fortuna di avere una vicina che lavorava in questo campo; aveva simpatia per noi e mi offriva spesso dei biglietti. Vedemmo il Circo di Mosca con il famoso clown Popov, il circo cinese, i cavalieri del Caucaso, e molto teatro inglese per ragazzi. lo che ero cresciuta nella guerra e nella povertà del dopoguerra italiano gioivo di questi spettacoli come e più dei bambini.
Gino c’era poco, ma a volte andavamo assieme ad eventi politici importanti dove incontravamo deputati laburisti, più moderati o di estrema sinistra, Fabiani, e molto spesso intellettuali fuggiti, o espulsi, dall’Urss e dai paesi dell’Est. Ricordo che una volta, verso la metà degli anni Settanta, andammo alla presentazione di poesie di un grande poeta russo, credo fosse Vasiliev. Egli recitò le sue poesie in russo, una lingua melodiosa che, tuttavia, io non conoscevo; poi Edward Fox, l’attore inglese. Le lesse tradotte, con un suono incisivo, quasi duro. Un grande contrasto, una bella esperienza. Si incontravano spesso anche giovani intellettuali italiani o politici socialisti e di sinistra che Gino aiutava organizzando per loro incontri con i laburisti, coi sindacati inglesi, o a destreggiarsi nei molti centri di studio o di ricerca che fiorivano in città. Una delle visite più gradite fu quella di Antonio Giolitti, di cui Gino era amico e sostenitore.
Quattro, cinque anni dopo il nostro arrivo fui riconosciuta come insegnante qualificata di Fisica e di Matematica per tutte le scuole inglesi. Il mio primo insegnamento fu alla Libera Scuola Ebraica di Londra, mille e quattrocento ragazzi. Fu un’esperienza importante che mi segnò per il futuro. La tempra, la fermezza e la generosità di questi giovani ebrei, molti con incredibili storie familiari alle spalle, mi affascinò e credo mi aiutò a diventare un’insegnante ed una donna migliore.
Iniziai l’insegnamento il cinque gennaio del 1972. Pochi giorni dopo ci raggiunse la notizia della morte di Nicola Chiaromonte. Con difficoltà sistemai i bambini ed il mio impegno di lavoro ed io e Gino potemmo correre a Roma.
Prima era morto Pippo Pianezza, eravamo ancora a Genova; poi il padre di Gino, ed eravamo a Londra; in seguito, la perdita più sconvolgente per lui. Gino rimase per ore accanto a Nicola, in quel suo piccolo, meraviglioso studiolo, con le lacrime che scorrevano liberamente sul suo viso, senza vedere nessuno e nulla di quel che accadeva. Al funerale di Nicola c’era molta gente, sodali, antifascisti degli anni passati ed un gran numero di attori e studenti di teatro.
Molti portarono i loro ricordi, il loro ossequio e la loro tristezza, Moravia, Paolo Milano, ma Gino non si vedeva, s’era come nascosto. Qualcosa si era incrinato in lui, mormorava continuamente della lettera che Nicola gli aveva mandato solo il novembre precedente, in cui gli dava suggerimenti nel suo sforzo di padroneggiare la straordinaria, immensa mole di scritti e lettere di Caffi, scritte in tante lingue diverse, e di capire la sua straordinaria personalità.
Qualche anno dopo morì il fratello di Gino, ancora giovane, e lui si sentì disperatamente solo, come perso; sembrava che non gli si potesse dare molto sollievo. Del resto anche mia madre era appena morta, io stessa ero molto provata e mi sentivo come tagliata fuori dall’Italia. Lo sforzo per trovare un mio piccolo angolo vitale a Londra era stato molto forte.
Cominciavamo a portarci dentro delle ferite profonde che ci dividevano.
Gino si era inserito ormai abbastanza bene nel lavoro giornalistico, scriveva per l’Avanti, collaborava con la Rai ed anche un po’ con i servizi esteri della Bbc, continuava a mantenere un impegno particolare con l’Internazionale Socialista. Divenne amico di Leo Labetz, il direttore di Survey, la massima rivista sull’Urss ed il mondo dell’Est, con cui Gino collaborava.
Aveva un interesse e un amore tutto particolare per la Polonia e si adoperò molto per aiutare Adam Michnik e gli intellettuali polacchi come Kolakowski anche in Italia perché il Partito socialista desse loro sostegno per la liberazione della Polonia.
Gino aveva un numero infinito di racconti su fatti e personaggi che aveva incontrato in ogni parte di Europa, e li raccontava con quel suo impeto e ironia dissacrante che li rendeva indimenticabili.
Io, intanto, insegnavo Fisica alla Scuola Internazionale di Londra dove incontravo studenti da tutte le parti del mondo. Ricordo Ramin, il cui padre, professore di Chimica all’università di Teheran, era stato in carcere prima sotto lo scià, e poi sotto gli Ayatollah.
Seguivano la mia classe di fisica dell’ultimo anno il figlio dell’Attache Culturale di Israele ed il nipote di un grosso capo della guerriglia palestinese.
All’inizio fu difficile insegnare con serenità; un poco alla volta imparammo tutti a convivere e riuscimmo a raggiungere una completa concentrazione nel nostro studio delle leggi del moto o delle onde elettromagnetiche.
Queste esperienze arricchirono la mia persona e la mia vita e spero anche quella dei ragazzi. Gli ultimi anni a Londra furono molto aspri, anche tragici, a causa di eventi personali. Per me furono alleviati dall’insegnamento della Matematica in una scuola molto inglese dove ebbi la possibilità di conoscere gli inglesi dal di dentro, per così dire, il loro senso sociale, l’amicizia. Conobbi anche la capacità distruttiva che quella splendida citta che è Londra ha sugli uomini.
Gino rientrò in Italia nel 1986, e fu inviato speciale della Rai. Visse tutte le esperienze del mondo dell’Est e la tragedia della Yugoslavia. Io insegnavo Matematica a giovani da tutto l’Oriente in una piccola scuola inglese di Roma finchè arrivò il momento di staccare.

Che dire della nostra vita, della mia vita. E’ stata dura, un adattamento continuo a nuovi cambiamenti. C’è stata anche tragedia. Qualche rimpianto, ma soprattutto una grande commozione per la varia, meravigliosa umanità che ho incontrato, anche o forse soprattutto per merito di Gino, ed un amore incondizionato per i giovani, i miei figli e i miei studenti.