Mi chiamo Carmela e sono stata trasferita in questo carcere per motivi processuali. Vi mando una mia testimonianza del colloquio avuto con mio figlio Francesco nella sezione 41 bis di Spoleto. Era il 22 aprile del 2013 ed io allora ero libera ed andai con i miei due nipotini.
Il 22 aprile 2013, alle sei del mattino ero a Spoleto per fare il primo colloquio con mio figlio. Portai con me i suoi due figli Carlo e Nino, due gemelli di appena sei anni. L’attesa fu snervante, dopo una minuziosa perquisizione, ci fecero entrare in una piccola saletta per il colloquio, l’impatto fu devastante per me e i bambini. C’erano un tavolino, degli sgabelli, un grosso vetro, dietro quel vetro vidi mio figlio. Non lo vedevo da mesi e come madre il mio primo desiderio fu quello di poterlo abbracciare forte, forte, che strazio! Ammutolita mi aggrappai a quel vetro, grosse lacrime inondavano il mio viso. Mio figlio era lì, davanti a me e non potevo abbracciarlo, baciarlo, avevo tanto bisogno di stringerlo forte e fargli sentire come batteva il mio cuore, avevo tanto bisogno di trasmettergli le mie emozioni. Mio figlio mi guardava, non diceva nulla, non volevo farmi vedere piangere da lui, ma non ho potuto fare nulla per trattenere le lacrime, scorrevano da sole, irrefrenabili. Questa sofferenza non ebbe fine, dopo poco i bambini salirono sul tavolino e si aggrapparono a quel vetro nella disperata ricerca di un abbraccio, di un bacio da parte del loro padre, che immobile e senza parole guardava i suoi piccoli. I bambini nella loro ingenuità chiesero spiegazioni al loro papà, perché non potevano saltargli addosso come avevano fatto nei colloqui precedenti. Il loro papà esitò un attimo per trovare una risposta da dare alle proprie creature, una menzogna, con grande difficoltà e balbettando disse che stava lavorando e il datore di lavoro distrattamente lo aveva rinchiuso in quell’abitacolo. I bambini trovano sempre una soluzione, si guardarono intorno e chiesero un martello per abbattere quel vetro che li separava dal loro papà. Io li guardavo con grande tristezza, non potevo fare nulla; anche le guardie presenti al colloquio si intenerirono davanti ai bambini, fu solo un attimo, poi ripresero l’espressione di sempre; i sentimenti in questo ambiente hanno poco valore, la legge va rispettata. Può una legge far soffrire degli innocenti? Come si può essere insensibili davanti al dolore, alla disperazione dei piccoli? È questa la legge italiana? Non dovrebbe tutelare i bambini? Quel giorno mi posi queste domande, ma non trovai una risposta. Mentre facevo queste riflessioni, Nino, uno dei miei nipoti, con grande tristezza disse una frase che ancora oggi mi logora il cervello: "Vorrei essere una formica piccola, piccola e passare attraverso le fessure per poter abbracciare il mio papà!”. L’ispettore presente non disse nulla, guardò dall’altra parte, era commosso. Purtroppo al 41 bis queste scene si verificano nel quotidiano, bisogna che lo Stato intervenga, che i politici facciano qualcosa per porre fine alla violenza psicologica che subiscono tanti bambini; le lacrime dei piccoli, la loro sofferenza deve scuotere la coscienza di coloro che si ritengono i rappresentanti della giustizia. Voglio sperare che tutti coloro che lottano per porre fine a questi soprusi vincano questa battaglia; il cuore deve guidare le azioni e non lasciarsi condizionare dalla fredda ragione. Ho voluto raccontare questo episodio di cui sono stata testimone. In seguito non mi è stato possibile andare a trovare mio figlio in quanto sono stata arrestata, molti abusi ho subito anch’io, sono in carcere perché il pregiudizio ha il sopravvento e a Reggio con tanta facilità si mandano in carcere le donne, perché essere madri o mogli in una famiglia che ha problemi con la giustizia è un grosso reato e bisogna pagare per colpe che non si hanno. Continuate, non arrendetevi, non premettete che venga calpestata la dignità delle persone, date una speranza a chi subisce in silenzio, siate portavoce di tutti coloro che soffrono.
Dal carcere di Reggio Calabria, sezione femminile
17 maggio 2017