Cari amici,
sono arrivata da qualche giorno a Hangzhou, la città famosa fino a ieri per essere la patria della seta, per il lago Xi (in cui si riflette la luna), molto amato dai poeti antichi, e per essere piaciuta perfino a Marco Polo; e che oggi è forse più nota per essere la città di Jack Ma e di Alibaba. Non venivo esattamente da dieci anni, quando Alibaba era ancora un puntolino nel firmamento industriale cinese, e la differenza questi dieci anni l’hanno fatta. è una delle città più pasciute e benestanti della Cina, molto soddisfatta di sé. Ho un’amica, a Pechino, che non la sopporta proprio, perché "se ne stanno sempre intorno al loro lago a bere il loro tè e a dirsi come sono fortunati e che bella che è Hangzhou”. E in effetti è vero che qui tutti cantano le lodi della loro città senza alcuna remora. "Come si mangia bene a Hongzhou!”, dicono tutti: "E che té squisito!”, aggiungono. "Come cresce l’economia a Hangzhou!” dice uno, "e come cresce l’economia green!”, aggiunge l’altro, lanciandosi poi in uno spericolato racconto su quanti pannelli solari ci sono in città e su come la municipalità abbia "eliminato tutte le fabbriche inquinanti mandandole più lontano”. In realtà, sul mio telefono di Hong Kong ogni giorno ricevo l’allarme per l’inquinamento alto, con tanto di consiglio di non fare sport all’aperto e di prendere precauzioni se si è persone "particolarmente sensibili”. Ma non sono stata a controbattere, ovviamente.

Tuttavia mi sono chiesta per quale motivo in Cina così tanti incontri occasionali debbano passare per questa serie di banalità che sembrano senza fine. Ho spesso pensato che fossero un modo un po’ noioso per rompere il ghiaccio con una persona che non è di qui, e dalla quale non si sa bene cosa aspettarsi. Per esempio, anche se dico che sono in Cina dalla fine degli anni Ottanta, prima o poi mi viene chiesto se so mangiare coi bastoncini. Oppure mi vengono descritte alcune particolarità cinesi come se si trattasse di verità sacrosante, che ogni straniero dovrebbe conoscere. "Qui in Cina abbiamo otto tipi di cucina” è una delle osservazioni più comuni, poi comincia la litania: "la piccante del Sichuan, la dolce di Canton, il pesce dello Shandong...”, ecc. Oppure, una qualche storiella su imperatori e concubine: altrettanti luoghi comuni che chiunque ha sentito innumerevoli volte. Ma mi sono accorta che -bastoncini a parte- molte di queste banalità vengono ripetute non solo con chi, come me, potrebbe non essere mai stato messo al corrente del fatto che "la Cina è un Paese molto grande” o che ci sono otto tipi di cucina, ma che queste conversazioni si svolgono anche fra cinesi che non si conoscono.
Ho impiegato tanto tempo a capire che questi scambi privi di qualsiasi interesse, se non quello di confermare di sapere tutti le stesse cose ("Hangzhou è la patria del tè longjin! è uno dei migliori tè cinesi! Del resto, noi cinesi beviamo molto té”) sono anche del tutto sicuri. Non si corre alcun rischio a snocciolarsi addosso le specialità culinarie di ogni città, o nel raccontarsi fieri che le ragazze di Hangzhou e Suzhou sarebbero le più belle della Cina (che sia una frase piuttosto irritante ancora non è entrato a far parte della percezione comune). Ci si parla senza dire nulla, senza scoprirsi, senza esporsi, e senza doversi pentire dopo. Si resta all’interno di parametri di gentilezza e affabilità del tutto raccomandabili. è l’equivalente del parlare del tempo incontrando qualcuno in autobus o in ascensore. Ma a pensarci bene qui è un’altra cosa. A cosa servirebbe scivolare in discussioni sull’attualità, o rischiare di accennare al fatto che anche qui, nella comoda e soddisfatta Hangzhou, vengono arrestati gli avvocati che difendono i diritti civili e quelli religiosi, con uno sconosciuto? Perché mai criticare apertamente l’amministrazione locale dicendo che sì, gli slogan per la strada dicono che Hangzhou è una città verde, ma l’inquinamento è tale che non si vede il cielo, e basta un’app del cellulare a confermarlo?

Di solito non presto attenzione alle frasi fatte, ma non faccio nemmeno lo sforzo di essere più amichevole di tanto quando me le sciorinano. Questa volta, invece, non saprei dire perché, mi sono parse un gioco noioso, perverso, parte di quello che fa sembrare la Cina un posto impossibile. D’altra parte mi sono anche detta che questo mondo di conversazioni superficiali è in fondo l’unico possibile, fin tanto che le cose restano così, e ho tenuto a bada l’irritazione. Anzi. Ho iniziato una sciocca gara con un professore di archeologia che sono venuta a intervistare, seppellendolo di luoghi comuni non appena me ne ha proposto uno lui, senza tralasciare nulla: i bastoncini, la luna riflessa nel lago, le donne belle, il tè e il vino di riso di Hangzhou. E le otto cucine cinesi. Ma non mi ha preso per matta.