Ore 9.00, un lunedì, uno dei tanti incontri con le scuole all’interno del carcere "Due Palazzi” nell’ambito del progetto "La scuola entra in carcere, il carcere va a scuola”. Un’ottantina di ragazzi tra i 17 e i 18 anni si siedono sulle scalinate dell’auditorium del carcere. Sono ragazzi, come ormai è normale incontrarne nelle scuole, di etnie diverse. Noi siamo seduti a qualche metro di distanza davanti a loro e cominciamo a raccontare le storie dei nostri reati. Uno dei nostri compagni desta sempre l’interesse dei ragazzi per la sua giovane età. È cinese. Inizia il suo racconto: "Sono venuto in Italia a 11 anni con mia sorella per raggiungere i miei genitori. Loro erano venuti anni prima ed erano venuti per lavorare, per scappare dalla povertà del nostro paese e cercare di darci un futuro migliore… Mi hanno iscritto a scuola, ma io non sapevo neanche una parola d’italiano. Non sapevo scrivere in italiano… non conoscevo nessuno dei miei compagni… a scuola ero come un fantasma.
Gli insegnanti non insistevano se io non sapevo o se non partecipavo, i compagni mi isolavano… spesso mi prendevano in giro, mi facevano prepotenze, mi provocavano e, se reagivo, a essere punito ero io perché non riuscivo a spiegarmi… non riuscivo nemmeno a spiegarlo ai miei genitori che erano sempre tanto impegnati a lavorare. Con gli anni finii col frequentare solo brutte compagnie perché era l’unico ambiente in cui mi sentivo accettato, considerato e, in qualche modo, riuscivo a sfogare la rabbia per l’indifferenza e il rifiuto della gente…”. Il racconto è un escalation di uso di droghe e ambienti violenti e culmina con una condanna per concorso in omicidio in una rissa.
All’epoca aveva 18 anni. In prima fila, davanti a noi, con gli occhi fissi sul nostro compagno c’è un ragazzo. È cinese. Alla fine del racconto alza la mano. Si vede chiaramente che vuole condividere una forte emozione: "…sono venuto in Italia a 11 anni per raggiungere i miei genitori. Loro erano venuti anni prima ed erano venuti per lavorare, per scappare dalla povertà del nostro paese e cercare di darci un futuro migliore… mi hanno iscritto a scuola, ma io non sapevo neanche una parola d’italiano. Capisco ora la fortuna di aver trovato degli insegnanti che hanno fatto di tutto per coinvolgermi nelle ore di lezione e dei compagni che mi hanno aiutato ad inserirmi in un contesto sociale così diverso da quello da cui provenivo”. L’insegnante ci dirà poi che è uno dei migliori studenti della scuola. Finisce l’incontro e ci lasciamo, ma oggi forse è diverso… questa spontanea, forte, doppia testimonianza ha raggiunto la coscienza di tutti i presenti. Ci ha fatto comprendere come, a volte, la semplicità di un gesto, di una mano tesa verso chi può trovarsi in una situazione di difficoltà (e non è detto che una volta non possa toccare anche a noi…) valga a disinnescare situazioni ben più complicate e pericolose. Oggi, guardando alla televisione le drammatiche immagini di Monaco di Baviera mi ritornano in mente le emozioni e i pensieri di quell’incontro con le scuole… mi vien da pensare che forse oltre alle scuole dovremo incominciare a incontrare e a confrontare le nostre storie anche con chi si occupa di politiche sociali. Sono convinto che fatti terribili come quello appena avvenuto non possano essere prevenuti sulla base di leggi repressive o di provvedimenti che escludono o marginalizzano le persone, anzi, forse l’unica soluzione virtuosa è la buona inclusione.
Credo che la nostra "storia cinese” ne sia una straordinaria esemplificazione.

Casa di reclusione "Due Palazzi”, Padova