E’ un vecchio Iliuscin a elica di una compagnia uzbeka l’apparecchio che mi porta a Ashgabat. Difficile comprendere le ragioni della mia lunga lista di attesa visto che i posti occupati sono a malapena la metà. Da Tashkent alla capitale turkmena ci sono circa 1300 chilometri che sembrano un’eternità, sospeso in un volo notturno di una lentezza esasperante. C’è tempo per fare mente locale. è dalla metà degli anni Novanta che mi occupo dell’Accordo di Partenariato e Cooperazione fra Unione Europea e Turkmenistan. Periodicamente la questione arriva sui banchi della Commissione Esteri sulla spinta della burocrazia europea e puntualmente il dossier si incaglia tra i banchi del parlamento. Quando si tratta di gas e petrolio la diplomazia ed i politici, in genere, non vanno per il sottile ma, evidentemente, c’è un limite a tutto. In tutti questi anni gli eurodeputati non hanno avuto il coraggio di dare il via libera ad un accordo con uno dei regimi più folli e stravaganti del globo. Sono trascorsi cinque anni dalla mia visita precedente. Da allora nessuna altra delegazione parlamentare si è avventurata da queste parti. Nel frattempo è scomparso il dittatore precedente, che si faceva chiamare Turkmenbasci cioè duce dei turkmeni, sostituito da un altro altrettanto megalomane, ma meno esagerato ed esibizionista, che ha cominciato a guardarsi attorno cercando di sfruttare al massimo l’appeal irresistibile dell’unica immensa risorsa del proprio paese, il metano.

Il Turkmenistan si colloca oggi nel mondo al quarto posto per quanto riguarda le riserve di gas naturale. Ma mentre fino a pochi anni fa tutto il metano esportato veniva pompato nella rete dei gasdotti russi controllata da Gazprom adesso la situazione è radicalmente cambiata. Due nuove pipeline, infatti, portano il gas turkmeno verso la Cina e l’Iran ed una terza, ancora più ambiziosa, è in progetto verso l’India passando per Afghanistan e Pakistan. Abbattendo il monopolio russo le autorità di Ashgabat hanno finalmente potuto collocare la preziosa merce a prezzi di mercato spuntando enormi guadagni.
Anche l’Unione Europea, impantanata in una complessa e contraddittoria politica di approvvigionamenti energetici, da qualche anno si è fatta avanti per sfruttare le immense riserve turkmene lanciando il progetto Nabucco, il gigantesco gasdotto lungo più di tremila chilometri, congegnato per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi russi, che dalla metà di questo decennio è destinato a portare il metano dell’Asia Centrale nel vecchio continente attraversando Mar Caspio, Caucaso meridionale, Turchia e Balcani fino all’hub di Baumgarten nei dintorni di Vienna. Più clienti, più richieste, più profitti: è la legge inesorabile della domanda e dell’offerta.

In Turkmenistan non esiste un bilancio pubblico. Buona parte del budget del paese è trattato alla stregua di un segreto di stato. Non si sa, quindi, dove finiscano i proventi del metano. A parole quella turkmena sembra una società perfetta, con i governanti intenti a ripartire equamente le risorse fra la popolazione con gas, elettricità, acqua, farina e sale gratuiti ed il prezzo del pane sussidiato. Di fatto chi è al potere incamera enormi ricchezze che finiscono in società off-shore e conti correnti privati delle banche di mezzo mondo, Europa compresa. La mancanza di dati credibili rende improbo il compito di ottenere un quadro definito della situazione economica. Impresa quasi impossibile anche per il governo turkmeno dato che vige ancora la tradizione sovietica di una economia di piano con obiettivi annuali di produzione che le autorità locali manipolano a piacimento per ingraziarsi i livelli superiori. La stessa cosa si applica per il resto delle statistiche che vengono giudicate altamente inaffidabili. Medecins sans frontieres, ad esempio, nel 2009 abbandonò il Turkmenistan dichiarando di non volersi rendere complice del mascheramento dei problemi del sistema sanitario di un paese dove ufficialmente Aids, epatite e tubercolosi sono quasi inesistenti. In un rapporto pubblicato l’anno seguente l’organizzazione denunciava il pericolo di un’epidemia di tubercolosi farmaco-resistente criticando i dati per il paese forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ashgabat, che nella lingua locale significa "città dell’amore”, ci accoglie sotto una pioggia scrosciante con i funzionari del protocollo ai piedi della scaletta pronti a dividerci in due gruppi: da una parte i deputati, dall’altra gli accompagnatori e gli interpreti. Ai primi viene offerto un rapido trattamento riservato mentre i secondi sono sottoposti alle lunghe trafile della micidiale burocrazia turkmena. Quella della rigida separazione in classi è un lascito consolidato dell’usanza sovietica dove la "nomenklatura” godeva di privilegi impensabili per il resto della popolazione. Tra moduli da compilare, dichiarazioni, timbri e tasse di ingresso raggiungiamo l’hotel nel cuore della notte in una città spettrale dove non si muove foglia e le uniche sagome identificabili sono quelle di poliziotti in divisa. Anche se non vi è alcuna emergenza e nessun conflitto in corso alle 23 scatta il coprifuoco e la capitale piomba nell’oscurità. Solo Ciad e Corea del Nord vengono dopo il Turkmenistan nel Democracy Index del 2010, la lista annuale stilata dalle organizzazioni non governative di settore dove vengono classificati 167 paesi in base a libertà democratiche e politiche.

Ero stato io a suggerire tre mesi prima all’eurodeputata finlandese Heidi Hautala, presidente della Commissione per i Diritti Umani, di presentare un emendamento che subordinava la ratifica dell’Accordo di Partenariato con il Turkmenistan ad una visita ad hoc di una delegazione europarlamentare che verificasse direttamente la situazione sul posto ed acquisisse gli elementi indispensabili per una corretta valutazione prima del voto.
Da un paio di anni la diplomazia europea era ritornata alla carica sostenendo che nella repubblica centro-asiatica erano in corso grandi cambiamenti che meritavano l’incoraggiamento ed il sostegno dell’Unione. La firma dell’accordo, secondo i diplomatici, avrebbe messo l’Europa in condizione di sviluppare un quadro di relazioni stabili propedeutiche al cammino delle riforme e all’ulteriore apertura del paese dopo gli anni bui di isolamento sotto il pugno di ferro del vecchio dittatore Saparmurad Niyazov, scomparso nel dicembre del 2006. Nell’adottare a sorpresa l’emendamento la Commissione Esteri aveva imposto che il dossier venisse trasmesso al parlamento prima della pausa estiva. Prima di partire avevamo inoltrato per iscritto alle autorità turkmene una serie di richieste che contemplavano la possibilità di visitare il carcere dove sono ospitati i prigionieri politici più noti, ma la lettera non aveva ottenuto alcuna risposta. Nonostante questo, anche se non senza qualche resistenza, ai parlamentari europei era stata concessa la possibilità di procedere con la visita prevista.

"C’è più attenzione da parte del governo turkmeno nei confronti dell’Unione Europea”, confida l’ambasciatore polacco che ci accoglie nella grande sala riunioni dell’Hotel President. "Dobbiamo sostenere le riforme promesse, c’è un impegno a promuovere un sistema multi-partitico” aggiunge quello inglese sottolineando l’importanza del dialogo. "Anche per quanto riguarda l’acqua, che è la questione più spinosa dell’Asia Centrale”, afferma il rappresentante romeno, "il Turkmenistan mantiene un comportamento responsabile offrendo energia a buon mercato al Tagikistan per convincerlo a non costruire nuove dighe che ridurrebbero i rifornimenti idrici dei paesi a valle”. "La situazione dei diritti umani non è migliorata ma cosa possiamo farci? Con i nuovi gasdotti il Turkmenistan potrebbe fare tranquillamente a meno dell’Europa”, spiega l’ambasciatore tedesco che considera impropria la contrapposizione fra gas e rispetto delle libertà democratiche. Bisognerebbe spiegare, però, perché l’Unione Europea ha adottato pesanti sanzioni unilaterali nei confronti della Bielorussia denunciando la repressione in corso nel paese contro le forze di opposizione mentre mantiene un atteggiamento prudente, se non di riguardo, verso le autorità di Ashgabat. In fin dei conti le due repubbliche sono entrambe figlie dell’Unione Sovietica e meriterebbero un trattamento uguale. A meno che le grazie dell’una prevalgano sulle disgrazie dell’altra e di questi tempi agli occhi europei le doti turkmene o, meglio, le dotazioni di gas turkmeno appaiono più interessanti di quelle bielorusse.
L’hotel Oguz Kent si trova a ridosso del centro della capitale. Appena inaugurato, si impone massiccio da un’altura come un blocco di cemento armato avvolto dalle vetrate calato improvvisamente dal cielo. Il nome, luogo degli Oguz, si richiama alle prime tribù turcomanne dell’Asia Centrale che discesero verso l’Europa alla fine del primo millennio colonizzando la Turchia. Non si sprecano i comfort, contrariamente alla sobrietà che caratterizzava lo stile di vita degli avi cui l’edificio fa riferimento. Un lusso sfrenato, ingombrante e invasivo travolge l’ospite in uno sfavillio di marmi e cristalli, moquette, tappeti e tendaggi che soffocano qualsiasi rumore e spazi sovradimensionati che disorientano l’occhio. è il biglietto da visita del nuovo Turkmenistan o, almeno, quello che le autorità cercano di rifilare alle delegazioni straniere obbligate a risiedere qui. Prezzi di favore per intere suite; fattorini, camerieri e donne di servizio che brulicano ad ogni angolo e si mischiano agli agenti di polizia che controllano il discreto viavai.
Anche se isolati i dittatori non sono mai soli. Si cercano, si trovano, si frequentano, hanno anche loro una rete di contatti e relazioni come se esistesse una internazionale dei despoti. Le straordinarie misure di sicurezza intorno e all’interno dell’hotel non sono per la delegazione dell’europarlamento ma per un ospite di maggior riguardo per i gusti turkmeni. Alexander Lukascenko è in visita ufficiale nel paese. Isolato come un appestato in Europa dopo la nuova ondata di arresti scatenata contro gli oppositori nello scorso dicembre, indesiderato in buona parte degli Stati, evitato in tutti i consessi internazionali e malvisto persino dei vicini russi, il dittatore bielorusso è giunto ad Ashgabat in cerca di consolazione. La sua foto appaiata a quella di Gurbanguly Berdymukhamedov, l’uomo forte del Turkmenistan, campeggia enorme ai principali incroci della capitale quasi si trattasse del vertice fra le due principali potenze del pianeta. Al di là della pompa magna, Lukascenko è alla ricerca di qualche contratto per tamponare una crisi che, a seguito del boicottaggio europeo, in Bielorussia morde più che dalle altre parti. Cammina deciso e spedito circondato dalle guardie del corpo mentre tutto il personale si blocca al suo passaggio ed io riesco a scattargli qualche foto, di soppiatto, per il mio archivio.

Il ministero degli esteri si trova in un grattacielo di un nuovo quartiere alla periferia della capitale sormontato da un immenso mappamondo con, al centro, il Turkmenistan. Dalle finestre si intravede il "sentiero della salute”, la scalinata che si inerpica a serpente per parecchi chilometri sulle colline circostanti fatta costruire da Nyazov per mantenere in buone condizioni fisiche i propri concittadini obbligati a percorrerla almeno una volta all’anno. Circondato da una schiera di collaboratori, il ministro Rascid Meredov sembra disponibile al dialogo sottolineando come negli ultimi anni le relazioni fra Europa e Turkmenistan si siano sviluppate positivamente. "Da quando il nostro presidente ha deciso di promuovere una politica più attiva verso l’esterno i contatti commerciali ed i rapporti istituzionali con l’Unione hanno avuto un notevole impulso dando vita a nuove aree di cooperazione”, spiega con enfasi, "il gruppo bilaterale di lavoro sull’energia si incontra regolarmente così come quello che si occupa di democrazia e diritti umani”.
Cambia tono, però, quando gli eurodeputati chiedono chiarimenti su alcuni dei dissidenti più noti costretti ad usufruire stabilmente dei servizi penitenziari del regime. Snocciola, puntualmente, accuse e capi di imputazione che nulla hanno a che vedere con la loro attività politica. "Si tratta di gente che ha commesso diversi reati come atti di violenza, porto abusivo di armi, falsificazione di documenti, estorsione, omicidio”, afferma, "siamo disponibili a cooperare con l’Europa, ma nessuno deve impartirci lezioni”. Si dilunga, poi, a spiegare come la legislazione turkmena si fondi su solidi principi etici e morali al contrario di quella europea che accetta eutanasia, commercio di droghe e matrimonio fra persone dello stesso sesso. "Noi cerchiamo comprensione e intesa ma entrambe le parti devono sforzarsi in questo senso”, conclude, "continuare a rimandare la decisione sull’Accordo di Partenariato non aiuta”. è dal 2008, anno della nuova costituzione, che in Turkmenistan è possibile fondare un nuovo partito. Nonostante gli "incoraggiamenti” del nuovo dittatore, però, nessuno si è ancora azzardato a provarci.

Il mercato all’aperto di Talkutchka, a mezz’ora di strada da Ashgabat, era considerato il più pittoresco, esotico e caratteristico dell’Asia Centrale. Ricordavo, dalla mia ultima visita, la confusione, la polvere e il disordine combinati con il folklore, i colori e l’originalità della merce offerta. Non è rimasto più nulla. Da qualche mese il grande bazar è stato trasferito un paio di chilometri a lato, in un nuovo parco commerciale alla stregua di quelli occidentali con banchi permanenti al coperto in strutture fisse in cemento. E per evitare eventuali proteste o rimpianti le autorità hanno pensato bene di radere al suolo quello che restava del vecchio mercato. Anche la merce, a parte i tappeti, ha perso ogni peculiarità. Si vaga da un settore all’altro su di un’ampia distesa di asfalto alla ricerca di qualcosa che non esiste più. Il regime ha colpito anche qui. Sta cercando di trasformare contadini e nomadi che si davano appuntamento per scambiare piccole produzioni e oggetti di artigianato in commercianti di professione iniettando fiumi di denaro in infrastrutture che non servono a nessuno se non ad esaltare la grandeur turkmena e a proiettare la potenza del padre padrone. A centro città, invece, il bazar russo è rimasto lo stesso. Pulito, ordinato, per certi versi variopinto, ma povero di stimoli per il turista occidentale.
Individuiamo all’angolo un "internet café”, uno dei pochi del paese, dove decidiamo di sperimentare la censura turkmena. Dopo una lunga trattativa con il gestore che non ne vuole sapere di affidare i suoi computer a stranieri, cerchiamo online il sito di "Human Rights Watch”, una delle più importanti organizzazioni internazionali di diritti umani. Nonostante i ripetuti tentativi il server risponde che il sito è inaccessibile. Troppo pericoloso per i cittadini del posto venire a conoscenza delle nefandezze del regime. Meglio vivere nella realtà surreale di un luogo partorito dalla folle immaginazione di un dittatore paranoico.

Due passi nella notte non guastano, anche se gli accompagnatori che ci seguono come cani da guardia lo sconsigliano. Con due colleghi, Eldar Mamedov e Renaldas Vaysbrodas, pianifico la fuga per qualche ora dall’hotel poco prima del coprifuoco. Gli uomini dei servizi segreti che controllano i nostri spostamenti prendono nota dell’uscita ma non ci fermano. Eldar è un lettone di origine azera, Renaldas è lituano: entrambi ex-cittadini dell’Unione Sovietica come i turkmeni. Passato comune ma presente da separati senza alcun rimpianto. Il centro storico è stato completamente rifatto. La statua dorata del vecchio dittatore a braccia aperte che all’apice di una colonna ruotava con il sole è stata rimossa, così come le effigi con il suo volto che si trovavano ovunque in un delirante culto della personalità.

Gli edifici popolari sovietici sono stati abbattuti per far posto a maestosi palazzi governativi in marmo bianco inframmezzati da ampi viali dalla prospettiva trionfale dove non passa nessuno. Riconosco la vecchia libreria a ridosso dell’università dove cinque anni fa avevo acquistato il "Rukhnama”, il libro scritto da Nyazov su ispirazione angelica destinato a salvare il popolo dalla perdizione che gli scolari turkmeni hanno ancora l’obbligo di studiare. Ci intrufoliamo, a fianco, nell’unico locale ancora aperto per mangiare qualcosa. Il russo di Eldar e Renaldas è indispensabile se devo farmi capire. Con me ricordano i tempi sovietici ma, sottolineano, ciò che si vede oggi ad Ashgabat era impensabile nelle repubbliche comuniste dell’epoca. Si chiedono anche loro come tutto questo sia potuto succedere. La storia, a volte, gioca brutti scherzi. In fin dei conti vivere nella vecchia Europa non è poi così male.