Ypres, Coventry, Dresda, Hiroshima. Nomi di città che hanno segnato il secolo e di cui, mai, sul suo finire, avremmo immaginato di dover riascoltare l’eco. Insieme a quello di nomi tedeschi di gas.
Abbiamo intravisto qualche volto. Quello attonito e fisso di un bambino irakeno coricato sul fianco non ustionato e quello di un bimbo ebreo nascosto dalla maschera antigas. E poi volti di padri irakeni scossi da un pianto infantile. E abbiamo intravisto di sfuggita il volto di un’anziana signora israeliana, invalida, portata a braccio giù per le scale. Di nuovo a dover scendere delle scale in tutta fretta. E sotto una tenda in un deserto guardando la finale del superbowl, la risata di un ragazzo nero americano che domani dovrà essere molto crudele e forse non tornerà a casa. Ed infine abbiamo visto i corpi senza più volto di inermi rifugiati, stanati dall’implacabile errore di un missile intelligente. Tutto questo seduti nelle nostre comode poltrone. E non sappiamo cosa pensare. Non sappiamo cosa fare.
Non applaudiamo, questo è certo. Quelli che ci incitano quotidianamente a farlo non ci piacciono. Ce li immaginiamo bene ad eccitarsi, a bere e slacciarsi cravatta e camicia e ad incattivirsi se il nemico non è anche un codardo. Se fossero al bar, un pakistano farebbe meglio a girare al largo. In tanto tifo sospettiamo l’odioso zelo dell’imboscato.
Purtuttavia anche noi, come loro, siamo seduti in poltrona. Convinti, con tutte le ragioni che l’occidente può avere, di essere al fondo colpevoli. E se trionferemo alla fine sul piccolo "regno del male” di turno cosa accadrà poi? Ci sarà una casa per i palestinesi? Potranno vivere in pace gli ebrei? Ci sarà più comprensione fra nord e sud? Lo dubitiamo. I dati certi per ora sono che calerà il prezzo della benzina e andranno su le borse. Il resto?