Elio Giovannini, sindacalista, già segretario della Cgil, è autore del libro L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano (Ediesse, Roma, 2001), nel quale ha proposto una nuova lettura del “biennio rosso”.

Nel tuo libro sul biennio 1919-1920 affermi che il dato centrale di quel periodo è la massiccia irruzione sulla scena politica dei giovani soldati-contadini, reduci dal fronte. Insomma, furono loro i principali protagonisti di quel momento rivoluzionario?
Sì, i salariati agricoli sono i protagonisti dello scontro sociale dell’intero biennio. I quattro milioni di braccianti costituiscono la forza più combattiva, quella dotata di una elevata coscienza politica. Nelle campagne italiane, rispetto all’anteguerra, è in atto un vero rovesciamento dei rapporti sociali. Non solo: si tratta di una vera e propria trasformazione culturale, una rivoluzione nel costume e nelle coscienze, che rompe antichi steccati e dà a milioni di uomini e donne una nuova idea della cittadinanza politica e nuova dignità sociale. Questa profonda trasformazione vede in primo piano proprio i giovani reduci appartenenti alla Federterra (la Federazione nazionale lavoratori della terra): sono loro i veri protagonisti della rivoluzione italiana.
Quando nel novembre 1918 finalmente cessano i combattimenti, milioni di uomini e di donne, in Italia, si rendono conto di vivere in un mondo in cui l’ambiente tradizionale di vita e di lavoro è profondamente mutato. La straordinaria accelerazione della storia prodotta dalla Grande guerra ha travolto radicate abitudini, modificato il costume delle donne, rotto l’isolamento sociale delle comunità contadine. Sul piano sociale la trasformazione è immensa. Le donne sono state obbligate ad andare a lavorare in fabbrica (soprattutto nell’industria bellica) e nelle campagne, per rimpiazzare gli uomini al fronte. Le loro abitudini cambiano: le nuove lavoratrici escono dalla dimensione domestica. Nei campi, nelle fabbriche, nelle file per il sussidio, sono accomunate dalla stessa sorte e dagli stessi problemi di lotta per la sopravvivenza. Sono 200.000 nelle fabbriche, 600.000 nelle confezioni militari, centinaia di migliaia nei servizi, milioni nell’agricoltura. Basti pensare che nelle campagne, dei 4.800.000 uomini oltre i 18 anni, 2.600.000 sono stati inviati al fronte e sostituiti nel lavoro da milioni di donne, vecchi e ragazzi. Si può davvero dire che milioni di piedi e di cervelli si erano messi in movimento.
Non solo l’Italia, ma l’intera Europa esaurisce al fronte risorse e uomini, affamando milioni di famiglie. L’altra faccia della guerra, però, è la modernizzazione forzata dell’economia e della società nazionale. Milioni di italiani e di italiane, nella prima esperienza collettiva veramente nazionale, cambiano lavoro, residenza e mentalità . L’esigenza di imparare a leggere e a scrivere, per mantenere le corrispondenze epistolari da e verso il fronte, spinge il tasso generale di analfabetismo dal 48% del 1911 al 27% del dopoguerra. Il “soldatino” scrive alla famiglia; mentre le donne scrivono al fronte, magari con l’aiuto del parroco. Ma c’è di più: la mobilità imposta ai richiamati e ai civili, con l’incontro e la sovrapposizione di dialetti diversi, configura per la prima volta un italiano popolare comune, quasi una nuova lingua, che non ha molto in comune con la lingua che si impara a scuola. La gente si trasferisce, conosce il treno. I giovani contadini inviati al fronte vengono sradicati da un ambiente molto limitato e circoscritto, quello dei campi, e vedono per la prima volta il mondo, imparano il rapporto con gli altri, con degli estranei. C’è una enorme trasformazione sociale, senza la quale è incomprensibile quello che succede sul piano politico nel biennio successivo alla guerra.
Lelio Basso, nel 1963, scrisse riguardo al biennio rosso: “Nessuna lotta precedente in Italia, e neppure successiva la Resistenza, sollevò una così vasta presa di coscienza collettiva, un rivolgimento così profondo dei valori prestabiliti, un’ondata così alta di entusiasmo e di volontà di rinnovamento; mai l’iniziativa democratica delle masse toccò un più alto livello”. Fu, dunque, una rivoluzione democratica?
Non c’è dubbio. Milioni di persone hanno cominciato a pensare di poter fare delle cose, di essere finalmente in gioco, di avere un ruolo. Le operaie nelle fabbriche, le donne che vanno a fare la fila per il sussidio e che si confrontano tra l ...[continua]

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