Le cose iniziarono all’epoca dell’occupazione tedesca, avevo diciassette anni il giorno della Liberazione di Parigi. Mio padre era deceduto in seguito alla prigionia, morto in strada a quarantaquattro anni. Durante l’adolescenza avevo abitato al centro di Parigi, nei quartieri della borghesia cristiana e tradizionalista, ma ero affascinato da coloro che si battevano affinché il Vangelo arrivasse anche nelle banlieues. All’epoca un mio cugino seminarista era stato mobilitato dai tedeschi per il servizio obbligatorio di lavoro in Germania, e da Colonia, dove era stato mandato a lavorare nella siderurgia -un ambiente durissimo- ci raccontava delle scoperte fatte insieme ai suoi compagni, dei suoi contatti con la Joc. (La Jeunesse Ouvrière Chrétienne, Gioventù Operaia Cristiana, un’associazione fondata in Belgio poco dopo la Prima guerra mondiale da padre Joseph Cardijn, a partire dalla constatazione che la durezza e la disumanizzazione del lavoro, e degli ambienti in cui esso si svolgeva, allontanava migliaia di giovani lavoratori dalla Chiesa, ndr). E furono racconti che mi segnarono molto. Questo ragazzo fu poi ucciso da una bomba americana il giorno della Liberazione.
Nel frattempo, nel ’43, era uscito in Francia il libro France, pays de mission?, scritto da Y. Daniel e H. Godin, e il cardinale Emmanuel Suhard, l’allora arcivescovo di Parigi, comunicò a tutti l’emozione che aveva ricevuto dalla sua lettura. Era un libro che rompeva con l’immagine tradizionale della Francia “figlia primogenita della Chiesa”, mettendo in rilievo la frattura che si era creata fra la Chiesa e le masse popolari, specialmente nelle periferie delle grandi città, e mostrava come interi settori della nostra geografia sociale e della nostra cultura non fossero mai stati evangelizzati.
Era successo che questo abate Godin, un cappellano jociste a Clichy, nella banlieue parigina, sulla strada dell’esodo, nel 1940, mentre i francesi fuggivano davanti ai tedeschi, aveva avuto l’occasione di incontrare un missionario che veniva dall’Africa e dall’incontro aveva ricevuto una sorta di elettroshock, un’illuminazione: “Dobbiamo portare in Francia il metodo delle Missioni. Non dobbiamo aspettare che la gente venga in chiesa, ma dobbiamo andare noi a condividere la loro vita, abitando e lavorando accanto a loro”.
Il cardinale Suhard, che già nel 1941 aveva fondato a Lisieux, in accordo con i cardinali e arcivescovi francesi, il seminario della Mission de France, nel ’44 ebbe l’intuizione e fondò la Missione di Parigi, dove nacquero i primi preti operai che cominciarono a condividere con i lavoratori la vita di fabbrica.
Il piccolo adolescente che ero si appassionò a questa prospettiva e fu attraverso questo cammino che fui chiamato ad essere prete, dopo aver avuto la possibilità di studiare Scienze Politiche e Diritto, studi che servirono ad aprirmi orizzonti importanti.
Fu così che dopo un periodo di seminario nella diocesi di Parigi potei raggiungere la Mission de France a Lisieux, dove c’era un grande fermento e una ricerca missionaria molto forte.
Purtroppo, dopo la morte del Cardinale Suhard, avvenuta nel 1949 (lo stesso anno in cui un decreto del Sant’Uffizio colpiva con la scomunica i comunisti e i loro simpatizzanti, ndr), la Mission de France fu guardata con sospetto dai responsabili romani e nel settembre del 1953 fu decretata la chiusura del seminario della Missione, dove si formavano i futuri preti operai, mentre nel gennaio del ’54 arrivò il provvedimento definitivo voluto da Pio XII: l’obbligo per i preti di lasciare il lavoro entro il termine ultimo del primo marzo “sotto pena di sanzioni gravi”.
Fu così che fummo costretti a lasciare Lisieux. (Con un gioco di parole francese, si dice che fummo limogés, ovvero “mandati a Limoges, la città famosa per le ceramiche. Si dice: “Una volta rotto, è stato mandato a Limoges”. Da qui, quando uno ha perso il posto si dice che è stato limogé).
Era anche il periodo dei teologi del Grand Renouveau (ovvero di quel movimento di r ...[continua]
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