Emanuela Diodà è cofondatrice e presidente dell’associazione multiculturale di volontariato Il Nostro Spazio/Ein Platz für uns, che si propone di “fare cultura” sulla sofferenza psichica. Promuove iniziative di sensibilizzazione e consapevolezza, di accoglienza, di solidarietà e condivisione con chi vive i problemi di salute mentale.

Che cos’è Il Nostro Spazio/Ein Platz für uns?
E’ un’associazione di volontariato, nata con lo scopo principale di offrire occasioni di incontro per fare esperienza insieme, a persone che a causa della sofferenza psichica sono tagliate fuori dal tessuto sociale e che hanno come punto di riferimento i familiari, quando questi sono disponibili, oppure solo gli operatori dei servizi.
A Bolzano c’è un’associazione di “Parenti e amici dei malati psichici”, quali sono le differenze fra le due organizzazioni?
La differenza essenziale sta nelle finalità. L’associazione “Parenti e amici” è nata per cogliere i bisogni delle famiglie, per costruire una rete di sostegno per i familiari. All’inizio degli anni Novanta il bisogno dei familiari dei malati psichici era fortemente inascoltato. Dopo gli anni della riforma, della discussione a tutto campo, e dopo l’approvazione della legge Basaglia c’è stata come una sorta di delega. Conquistata la riforma, i cittadini si sono progressivamente disimpegnati, lasciando ai servizi tutta la responsabilità di farsi carico della sofferenza psichica. La gente comune ha perso un po’ alla volta l’interesse, l’impegno in questo campo. Quindi sia le persone colpite che i loro familiari erano isolati e non ascoltati, abbandonati a se stessi. L’associazione è nata dalla disperazione dei familiari, che non riuscivano a creare rapporti soddisfacenti con i servizi specialistici.
Il Nostro Spazio è nato dalla constatazione che non solo i parenti ma anche coloro che soffrono di problemi psichici erano abbandonati a se stessi. I servizi c’erano ma non risolvevano tutti i problemi. Io lavoravo al Centro di salute mentale e si assisteva all’emergere del malessere dei pazienti dovuto alla solitudine, all’isolamento; i corridoi erano pieni di persone che venivano lì, non per una visita psichiatrica o un colloquio con le assistenti sociali, ma semplicemente per stare in compagnia di altri, anche se poi non si parlavano tra loro. Chi lavorava nei servizi si rendeva conto che non c’era nulla al di fuori dell’intervento sanitario. Non c’erano possibilità lavorative: nella lista degli invalidi civili non potevano essere inseriti i malati psichici. C’era proprio una discriminazione: come portatore di handicap si poteva beneficiare della legge sul collocamento obbligatorio, come malato psichico no, c’erano liste separate. Oltretutto non c’erano i servizi odierni, di collocamento mirato, di sostegno nell’inserimento lavorativo. Tutto ciò che c’è oggi è stato realizzato a partire dalla metà degli anni Novanta. E non c’erano neanche strutture residenziali: nei casi in cui c’era tensione nelle famiglie, non c’era la possibilità di offrire delle chance diverse ai malati. Esisteva dunque il bisogno di essere più in contatto con la società.
Si può dire che il Nostro Spazio è nato perché anche la risposta complessiva della società sudtirolese non era sufficiente?
Non era sufficiente né qui né in altre regioni d’Italia, e ancora di meno in Europa.
Lo stimolo da cui è nato Il Nostro Spazio-Ein Platz für uns è stato l’appello della Conferenza Episcopale del Triveneto, nel 1990, che chiedeva a tutte le diocesi di farsi carico della sofferenza dei malati psichici.
Però Il Nostro Spazio non è confessionale.
E’ nato su stimolo della Caritas e bisogna dare atto al direttore di allora, don Silvio Bortolamedi, di aver costituito immediatamente un gruppo di lavoro, di cui facevano parte persone che erano già nel campo del volontariato sociale e persone dei servizi, in modo da avere anche una consulenza tecnica. La presenza di volontarie e volontari di diverse culture e appartenenze ha permesso la nascita di un’associazione autonoma, aperta, multiculturale e plurilingue.
Che cosa si fa, chi ci viene, quali sono le attività? Non è certo come andare in una cooperativa dove si producono cose eventualmente da vendere, e non è neppure un gruppo di autoaiuto. Certe volte non si distingue tra i pazienti o, come dite voi, gli “amici” e i volontari...
Le persone che vengono, lo fanno se e quando ne hanno voglia. Vengono perché hanno la speranza di trovare aiuto, accoglienza. C’è ...[continua]

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