Massimo Recalcati, psicoanalista, è direttore della sede milanese dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza, e fondatore del Centro di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi “Jonas”. Recentemente ha pubblicato per Bruno Mondadori il saggio Sull’odio.

Recentemente è stato dato molto rilievo ad alcuni studi di laboratorio, con i quali si dimostra che i farmaci possono stimolare determinate zone del cervello, le stesse che si attivano durante il colloquio psicoanalitico. Come a suggerire che esiste un punto d’incontro tra la terapia dei farmaci e quella del colloquio.
La mia posizione personale rispetto all’orientamento egemone è che la psicoanalisi e le neuroscienze si occupano di due cose diverse; la psicoanalisi è un’esperienza della parola e della relazione umana (noi diciamo del transfert), quindi due grandi vettori, parola e transfert. La psicoanalisi produce un’efficacia terapeutica a partire da questo binomio. Le neuroscienze, invece, producono efficacia terapeutica indiscutibile, ma entro un campo di azione diverso: non usano la parola, ma il farmaco; non usano il transfert. Stiamo parlando di due campi di esperienza irriducibili. La psicoanalisi, diceva Lacan, è una scienza del particolare, dell’uno per uno. I risultati di una cura non si possono ripetere in un’altra cura. Freud consigliava di ricevere ogni soggetto come se fosse il primo, dimenticando le cure precedenti. L’esperienza, quindi, mette in risalto un criterio di unicità. Ancora, Bion raccomandava all’analista di ascoltare il paziente “senza memoria e senza desiderio”, cioè dimenticando l’esperienza accumulata fino a quel momento, come se fosse un avvenimento inedito. Lacan parlava della passione dell’ignoranza, come passione fondamentale dello psicoanalista: ignorare ciò che sa, per raccogliere l’inedito, l’incomparabile.
In che senso Bion parla di desiderio?
Ascoltare senza memoria significa ascoltare senza paragonare; senza desiderio, qui, significa senza aspettarsi nulla dal paziente. Ecco un altro punto fondamentale: l’analista non vuole guarire, non punta alla guarigione del paziente. La guarigione deve arrivare come effetto di un percorso di recupero della storia personale, ma non è l’obiettivo di una psicoanalisi. Quest’altro punto rende la psicoanalisi inattuale nell’epoca contemporanea, perché nella contemporaneità prevale l’esigenza dell’utilità immediata. A una terapia si chiede che sia immediatamente utile, immediatamente efficace nel ridurre la sofferenza sintomatica. Sicuramente il farmaco risponde meglio al criterio dell’utilità immediata, mentre la psicoanalisi ritiene che la guarigione sia raggiunta nella misura in cui si compia un percorso più ampio e venga meno il criterio dell’utilità immediata.
L’aspettativa di una utilità immediata può portare al fallimento di una psicoterapia?
Freud, nella sua immensa saggezza, sconsigliava all’analista di prendere in cura soggetti eccessivamente angosciati, cioè soggetti troppo pressati dall’urgenza di risolvere immediatamente il problema. Perché la psicoanalisi è un’esperienza lunga e richiede tempo. Questo, come dicevo, è un elemento dell’inattualità dell’esperienza psicoanalitica. Attualmente nel mondo cosiddetto “psy” riscuote grande consenso la cosiddetta psicoterapia breve, centrata sul criterio del sintomo-bersaglio. Si individua il sintomo dominante, che è causa della sofferenza del soggetto (ad esempio, anoressia o insonnia) e si cura quello, estrapolandolo dalla dimensione più generale della soggettività.
Questo è il contrario della prospettiva freudiana, che significa collocare il sintomo all’interno della soggettività in senso più ampio. Mentre la dimensione della psicoterapia breve è una forma di accanimento terapeutico, in cui si punta a sciogliere il sintomo cosiddetto bersaglio. Con una serie di controindicazioni. Faccio un esempio. Io mi occupo da quindici anni di anoressia. Inizialmente si osserva che il soggetto risponde positivamente alla psicoterapia, cambia il suo modo di alimentarsi, diciamo pure che guarisce dall’anoressia. Poi magari si suicida. Da una parte la terapia è riuscita, l’anoressia non c’è più. Dall’altra, è evidente che ci sono delle controindicazioni.
La psicoterapia cosiddetta cognitivo-comportamentale, che oggi è egemone, punta a modificare i comportamenti. Se non si tiene conto della soggettività in generale e ci si concentra solo sull’esigenza di riportare alla normalità un comportamento dev ...[continua]

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