Don Renzo Scapolo è parroco di Plesio, Como.

La mia famiglia era immigrata nel comune di Montano Lucino alle propaggini delle Prealpi, tra Como e Varese, arrivando con un vecchio camion partito dalla pianura a nord di Padova -Veneto, Terronia dell’est- che trasportava due nidiate di bambini e ragazzi, quella di mio padre e quella di suo fratello Luigi. Era una casa abbandonata già da alcuni anni, c’erano rovi dappertutto, il tetto in disfacimento.
L’anno dopo il nostro arrivo, mio fratello partì per il fronte; aveva 18 anni, dopo l’8 settembre, fu tra quelli che i tedeschi portarono in Germania per non lasciarli nella tentazione di schierarsi con il re. Ricordo che il postino dava a noi, in classe, alle elementari, la posta da portare a casa e con che gioia recapitavo le rarissime lettere di mio fratello che arrivavano dalla Germania.
Io non volevo andare a scuola, ero abituato a vivere in mezzo ai boschi, così la mia maestra mi bocciò in prima, che feci due volte, e poi mi bocciò anche in seconda. Mia mamma diceva che facevo così perché mi ero innamorato della maestra e volevo sposarla. In realtà, dopo la seconda elementare capii che studiare mi rendeva più capace di capire e di farmi capire e mi misi a studiare come un dannato.
Avrei voluto continuare, ma la mia famiglia non poteva permetterselo. Mi ricordo ancora come fosse oggi quando, seduto fuori dalla porta della scuola, sentii la maestra dare i compiti per le vacanze a tre dei miei compagni privilegiati, quelli che potevano andare a studiare alle commerciali. Credo che molte delle cose che ho fatto, soprattutto a livello di scuole, siano derivate dalla rabbia che mi venne quel pomeriggio in cui mi sentii condannato alla quinta elementare.
Dopo aver passato un paio d’anni ad aiutare mio padre nel lavoro dei campi, andai a fare il fabbro. A 17 anni dissi ai miei che andavo a farmi prete. Mi preparai per l’ammissione alla terza media, ma mi bocciarono di nuovo, perché il mio parroco, che credeva di sapere il latino, e certamente lo sapeva, certo non lo sapeva insegnare: tradussi tutti gli infiniti con il supino…
Così, quando finalmente entrai in seminario mi ritrovai, io diciassettenne, a fare la chioccia con dei ragazzini di 12 anni.
Allora il seminario era zeppo, strapieno. La nostra classe aveva 32 alunni, adesso è tutto il seminario che ne ha 32… Infatti, a quei tempi, ci si permetteva anche il lusso di potare abbondantemente i candidati al sacerdozio. Per esempio, quelli un po’ troppo svegli, che rischiavano di essere disobbedienti, potevano essere definiti facilmente privi di vocazione religiosa...

Sono diventato prete a 28 anni, nel ’65, nel pieno del Concilio Ecumenico Vaticano II, con Giovanni XXIII, e le grandi speranze, il grande sogno, la Chiesa nuova, poi Paolo VI. Ho risentito molto di quel clima, si era appena prima del ’68.
Uno dei miei incontri più decisivi fu senz’altro quello con un prete stranissimo, di Albenga, don Vittorio Cambiato, un prete confezionato nel modo più tradizionalista, con sottana, l’unico che ho trovato che avesse una sola sottana come diceva Gesù nel Vangelo: “Non abbiate due abiti…”. (Già, anche mio padre, da buon contadino povero del Veneto, aveva un solo abito della festa, ricordo come lo spazzolava quando andava alla messa la domenica, e poi lo appendeva subito, l’abito è una cosa seria). Don Vittorio Cambiato era venuto lì nel ’67 per una ricostruzione dell’evoluzione spirituale di Guido Gozzano, nel cinquantesimo della morte (si diceva fosse stato plagiato da un frate benedettino approfittando dei terrori che dà la tubercolosi). Don Vittorio aveva con sé una lettera che Guido Gozzano aveva scritto al suo fratello di latte (Gozzano era stato affidato a una nutrice) che s’era fatto prete, un certo don Graziani, che, morendo, gliel’aveva lasciata; sei pagine scritte fitte, in cui si manifestava una tremenda ansia religiosa. Tutto questo era poi stato pubblicato su Il Corriere della Sera, nelle pagine letterarie, suscitando un discreto scandalo anche perché dicevano che nell’opera omnia ci si era era permessi di scrivere “dio” con la d minuscola, mentre Gozzano lo scriveva con la d maiuscola e i fogli di don Vittorio lo testimoniavano.
Ricordo ancora quando, di fronte alle mie lamentele sul fatto che, nonostante fossero già passati due anni dalla fine del Concilio, non stava cambiando niente, rispondeva: “Tu non hai il senso degli archi e della storia, tu misuri le cose con i tuoi ...[continua]

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